Opinioni & Commenti

Quei documenti del Concilio incartati nella «Pravda»

DI VITTORIO CITTERICHQuando Mikhail Gorbaciov venne per la prima volta dal Papa aveva ancora il titolo di segretario generale del Pcus. Formalmente era, dunque, un successore di Lenin che, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, si vantava d’essere il fondatore del primo Stato ateo della storia. Gorbaciov, forse per far perdonare quella fondazione e le immani sofferenze che essa aveva procurato ai credenti in oltre mezzo secolo di storia, fece precedere la sua visita a Giovanni Paolo II da una splendida mostra di icone russe in Vaticano.

Chi aveva conosciuto il peso oppressivo dell’ateismo in Urss, non tanto sulle descrizioni libresche, quanto nella quotidianità della vita popolare, non aveva ragione di sorprendersi. Se non per i tempi in cui l’evento liberatorio era accaduto. Tempi più rapidi del prevedibile per l’inevitabile crollo culturale, prima ancora che politico ed economico, dell’impalcatura sovietica.

Invero già nel 1936, in pieno e crudele fulgore staliniano, Jacques Maritain aveva previsto la caduta. Il grande filosofo cattolico francese autore de «L’umanesimo integrale», a cui il Concilio affidò il messaggio della Chiesa agli uomini di cultura, proprio nel 1936 aveva trovato, non so dove, una lettera di Lenin a Clara Zetkin che diceva: «la decadenza dei costumi non ha nulla di rivoluzionario, anzi è un prodotto della decadenza borghese». «Verrà il giorno che un successore di Lenin – commentava Maritain nel 1936 – proclamerà, a maggior ragione, che l’ateismo non ha nulla di rivoluzionario anzi è un prodotto della decadenza borghese».

E ci sembrò che quel giorno era già venuto quando vedemmo i due slavi, Mikhail Gorbaciov e Karol Wojtyla, le mani protese a sfiorare un futuro diverso. Con la promessa mantenuta del successore di Lenin di abolire l’ateismo di Stato e riconoscere libertà di fede e di coscienza. È probabile che tutti, a cominciare dai due slavi, ci aspettassimo che la liberazione assumesse ben altri ritmi ecumenici ed altri tempi di attuazione. Invece le complicazioni sono venute più che dalle relazioni internazionali dai rapporti interecclesiastici.

Ne chiesi ragione all’amico Anatoli Krassikov, consulente governativo degli affari religiosi ai tempi di Boris Eltsin, con la confidenza derivante dal fatto che avevamo lavorato insieme a Roma, nella sala stampa del Concilio ecumenico, lui corrispondente dell’agenzia sovietica Tass ed io per «L’Avvenire d’Italia».Rispose con altrettanta confidenza. Notai soltanto che allora, ai tempi del Concilio, usava l’espressione «noi sovietici» mentre, adesso, diceva «noi ortodossi». Dettagli, se si vuole. La tesi di Anatoli è questa: «Quando c’era l’Urss i prelati della Chiesa ortodossa, per potersi muovere con la libertà relativa che era loro concessa, dovevano tenersi buono il regime comunista. Caduto il regime questi prelati, i quali erano, tutto sommato, i più aperti ecumenicamente perché avevano girato il mondo, hanno dovuto far posto ai meno compromessi con il regime che hanno la maggioranza nel governo sinodale dell’ecclesiologia ortodossa. Ma questa maggioranza è la più sprovveduta culturalmente anche se piamente legata alle più antiche tradizioni». Ora, come è noto, anche l’antipapismo, l’anticattolicesimo in generale, fanno parte delle più antiche tradizioni. La sociologia di Anatoli forse non è tutta la spiegazione. Mi sembra, però, che molte testimonianze convergano verso questa sia pur parziale spiegazione. D’altra parte anche nel pieno del regime sovietico, nell’epoca di Breznev che portò al limite la decadenza culturale del marxismo-leninismo, ai residui splendori della liturgia bizantina confinata nelle poche chiese aperte al culto corrispondeva una sia pur costretta limitazione culturale degli episcopi e del clero.Ricordo Nikolai, segretario laico di Nikodim, il metropolita di San Pietroburgo (allora Leningrado) che morì fra le braccia di Giovanni Paolo I. Nikolai frequentava la nostra casa a Mosca, cercando di eludere il controllo dei miliziani che presidiavano il quartiere degli «stranieri». Ogni volta si estasiava di fronte ai miei libri, però non osava chiederne in prestito. A mia volta non osavo regalarglieli sapendo dei controlli cui era sottoposto dovendo viaggiare in treno da Mosca sino a Leningrado. «Nikolai, e se mi facessi mandare l’edizione russa di tutti i documenti del Concilio?». «Impossibile rifiutare, il mio Metropolita non me la perdonerebbe….».

I testi in russo arrivarono, a stretto giro di posta diplomatica dal Vaticano. Nikolai si precipitò da Leningrado. Accarezzava i volumi con le mani e con lo sguardo. «Noi ortodossi siamo costretti a non sapere che cosa pensano e che cosa fanno gli altri cristiani». «Prendi tutto». «Non posso uscire con tutto questo materiale, verrò a prenderlo a rate, ma ti prego preparami molte copie della Pravda».

Per una settimana Nikolai tornò ogni sera. Avvolgeva nella Pravda un documento del Concilio, un’enciclica papale, una copia dell’Osservatore. Salutava deferente il miliziano di guardia esibendo la Pravda sotto ogni braccio. Così da Mosca a Leningrado, anzi San Pietroburgo. Quando nessuno temeva proselitismi e arroganze e tutti aspettavamo nuove terre e nuovi cieli. Come aspettano anche adesso, nonostante tutto, i buoni cristiani di ogni parte. Ne sono certo. Con Anatoli e Nikolai.