Opinioni & Commenti

Rendere piena di senso la vita delle persone inguaribili

Che senso ha la mia vita, o quella del mio amato, quando siamo ormai travolti nella catastrofe della irreversibilità e del dolore? L’agonia di Vincent Lambert, giunta in queste ore al suo drammatico epilogo, riaccende queste domande. Sedazione, cure palliative, accanimento terapeutico: temi medici complessi su cui non si può fare confusione. Di queste cose si è parlato, nei giorni scorsi, al Tavolo che riunisce i 22 hospice cattolici che operano in Italia: in quell’occasione mi è stato chiesto di parlare dell’identità specifica degli hospice cattolici.

L’Organizzazione mondiale della sanità nel 2018 ha riconosciuto che i palliativisti – medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali e assistenti spirituali – sono personale da integrare nelle risposte alle crisi e emergenze umanitarie proprio perché capaci di lavorare tutti i giorni nella «catastrofe personale e familiare» del fine vita. Un approccio globale che può aumentare la sopravvivenza e la «ri-nascita» di chi è passato attraverso le più grandi sofferenze. Era l’idea originaria di Cicely Saunders, alla cui opera pioneristica e cristianamente ispirata si deve l’origine, oltre 50 anni fa, delle cure palliative: la cura del dolore non fine a sé stessa ma come mezzo per permettere di vivere pienamente gli ultimi giorni della propria vita. «Grazie perché li rimettete al mondo» era scritto nel librone dei saluti di un hospice fiorentino nel gennaio di quest’anno.

Accoglienza in hospice oggi vuol dire, paradossalmente, accoglienza della sofferenza. È infatti paradossale che si sia giunti a dovere dire questo per gli hospice, ma il crescere di una mentalità utilitarista chiede nuovamente una testimonianza ferma riguardo alla non esistenza di un dolore inutile. «Ogni uomo – scrive Giovanni Paolo II in Salvifici doloris – ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione. È chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta. Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo».

Questa testimonianza ferma, resa ancora oggi nel momento in cui si vuole suggerire invece che un mondo nuovo ci aspetta, nel quale sapremo darci volontariamente la morte quando fossimo inguaribili imparando ad affrontare la morte stessa con gioia e trepidazione come un qualsiasi altro passaggio importante della vita (lo scriveva ad esempio Carlo Rovelli sul Corriere della Sera, alcuni mesi fa) crea scontro e contrasto. Anche questo contrasto va accolto, anche questa capacità di essere diversi sarà identità cattolica dell’hospice del prossimo futuro. Ancor più importante per l’identità cattolica di un hospice è la precisione nel condurre e rendere conto delle sedazioni palliative, che possono diventare occasione di ambiguità e motivi non dichiarati.

Questa possibile ambiguità è stata oggetto di attento vaglio anche da parte del Comitato nazionale di bioetica, nel 2016. Tra le altre indicazioni era stato allora esplicitamente indicato che, qualora profonda e mantenuta fino al decesso, la sedazione palliativa era da considerarsi lecita solo in caso di morte imminente (ore o giorni). Eppure anche recentemente è stato proposto in Senato un disegno di legge proprio per abolire la condizione di terminalità come condizione di liceità della sedazione continua profonda. Ovvero, quello che è accaduto in Francia per Vincent Lambert, dove la sedazione si è accompagnata con la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Si cerca in questo modo – lasciandole morire – la soluzione al dramma di persone con disabilità irreversibili ma ancora ricche di capacità vitale, quindi tutt’altro che in imminenza di morte.

Solo la luce di una testimonianza ferma può allontanare l’ombra lunga dell’eutanasia dalle cure palliative, pur nate oltre 50 anni fa in esplicita antitesi alle proposte di morte medicalmente assistita. «Se la persona si sente amata, rispettata, accettata, l’ombra negativa dell’eutanasia scompare o diventa quasi inesistente, perché il valore dell’essere umano si misura dalla sua capacità di dare e ricevere amore, e non dalla sua produttività»: così si pronunciava papa Francesco nel Seminario sull’Etica nella gestione della salute dello scorso ottobre. Le cure palliative, concentrandosi sul curare quando non si può più guarire, cercano di rendere piena di senso la vita delle persone inguaribili. La speranza dovrebbe rimanere il primo obiettivo, anche in tempi di sdoganamento della eutanasia. Se non altro, la speranza di vivere e morire per gli altri, aperti al grande flusso della vita umana dove siamo sempre un dono uno per l’altro. Sapere conservare questo spirito, la speranza che non delude, è forse la sfida maggiore del prossimo futuro nell’assistenza del fine vita e della cura del dolore.