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San Giuseppe, la paternità come arte del custodire e del curare

C’è un’immagine di grande tenerezza che permette di riscoprire l’importanza di Giuseppe nel rapporto con Maria e Gesù. L’ha ben rappresentata il pittore bolognese Guido Reni in un dipinto realizzato nel 1635, conservato nel Museo Ermitage a San Pietroburgo. Giuseppe tiene in braccio il bambino, mentre Maria è sullo sfondo raccolta in un riposo orante. È un ritratto diffuso in tante chiese dei nostri territori ad opera di artisti locali. La scena è stata evocata anche da papa Francesco, durante un’udienza generale (18 dicembre 2019): «Mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina, che si chiamava: “Lasciamo riposare mamma”. C’era la Madonna addormentata e Giuseppe con il Bambinello lì, che lo faceva addormentare. […] “Lasciate riposare mamma” è la tenerezza di una famiglia, di un matrimonio».

Immagino che tutto ciò sia accaduto durante la fuga in Egitto o nel viaggio verso Gerusalemme per la presentazione. La bellezza del dipinto di Reni, così come delle altre raffigurazioni, risiede soprattutto nella rappresentazione di questo padre che si prende cura della famiglia. Nel suo atteggiamento amorevole si può rileggere oggi la stessa paternità come arte del custodire e del curare. È quel “di più” che è insito nella stessa generatività, intesa non come una somma ma come un completamento della vita. La cura è un atto profondamente esistenziale, una categoria antropologica che dà significato e sostanza a ogni istante della quotidianità. Una cura che, soprattutto nei primi anni di vita, passa dall’accostare i piccoli al proprio cuore. È il battito a dare serenità: in quello stesso ritmo cardiaco passa una storia condivisa; diventa narrazione personale e comunitaria.

La sfida più grande sta nel riuscire a far battere il cuore dei padri per i figli per rivitalizzare un tessuto che rischia di essere sclerotizzato dai tanti cambiamenti in corso. Questi non devono scalfire o mettere in dubbio autorità e autorevolezza, ma sottolinearne l’importanza. L’assenza di punti di riferimento è un campanello d’allarme che suona come grido d’aiuto: c’è bisogno di padri – adulti, non per biografia ma per testimonianza ed esemplarità. In questo senso, il custodire di Giuseppe diventa paradigma e orizzonte di vita. Non si riflette mai abbastanza sul valore della memoria che passa attraverso la narrazione: fare memoria è più che ricordare perché apre alla lode, al ringraziamento e alla benedizione. La paternità è espressione di tutto ciò in una tessitura generazionale che, nel passaggio tra le età, crea comunità familiari. È l’ordito della comunicazione: l’insieme dei fili che raccontano la vita dei genitori e dei figli e tra i quali viene inserita la trama a formare l’intreccio delle storie. Per questo, la paternità ha bisogno di tempo.

Sono convinto che Giuseppe il sognatore avesse la capacità di riposare nel futuro. D’altronde ogni padre guarda all’avvenire dei propri figli. Ma come? In modo egoistico, proiettando i propri desideri, o in modo amorevole, cambiando le proprie idee? Giuseppe ci insegna la differenza tra “avere tempo” e “fare tempo”, in una visione relazionale centrata sulla qualità e non sulla quantità. Il suo lavoro di falegname ha portato in dotel’abilità dell’artigiano di riconoscere l’opera lì dove nessuno scorge ancora nulla. Quella capacità, cioè, di vedere la forma nella materia. La visione, la passione, la creatività e la cura dei dettagli sono la cassetta degli attrezzi indispensabili per chi voglia entrare in bottega… La percezione dà vitalità all’intuizione trasformandola in intenzione. Come non vedere in questo riposare nel futuro la passione educativa! Essere padre è entrare ogni giorno in bottega per intagliare una statura rispondente alle domande che il tempo e la storia pongono. Non per vanagloria, ma perché siamo padri!