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Scegliere la parte giusta non basta a fare di un giovane un eroe

Che significa essere «eroi» oggi? Se si intende essere valorosi, oggi «eroe» è soprattutto il mercenario che passando da una guerra all’altra ha accumulato il maggiore addestramento ed è un laureato nell’arte della guerra moderna. Se si intende il disprezzo della morte, oggi l’«eroe» è soprattutto il kamikaze che offre volontariamente di uccidere se stesso un secondo prima di uccidere gli altri. Il suicida-omicida è superiore anche all’eroismo di Achille che dice nell’Iliade: «Niente per me vale la vita». Se per «eroe» si intende l’amante della guerra, la parola sa molto di destra perché è stata inflazionata dai regimi fascisti che volevano fare un eroe anche del salumiere. A sinistra finora la parola «eroe» è stata usata con molta avarizia. Anche durante la Resistenza si è preferito chiamare i propri eroi «martiri», quasi a volere indicare, anche contro l’evidenza, chi aveva subito, ma non fatto violenza. A sinistra la famosa frase di Brecht «beati i popoli che non hanno bisogno di eroi» stava a significare che prima della guerra aveva diritto di precedenza la prevenzione della guerra e bisognava inchinarsi davanti a chi faceva di tutto per non portare il proprio popolo a mostrare il proprio valore sui campi di battaglia.

Lorenzo Orsetti, il fiorentino che è stato ucciso combattendo con i curdi contro l’Isis in Siria, amava definirsi «partigiano». Forse pensava a don Milani per il quale il partigiano era quello che aveva combattuto l’unica guerra giusta fatta dall’Italia nella sua storia. Ma il partigiano combatte per la sua patria e non per la patria altrui. Il gesto di Orsetti si colloca piuttosto nella tradizione internazionalista che corre da Lord Byron che va a morire in Grecia a Che Guevara che va a morire in Bolivia. Per la verità, come spesso succede nelle guerre dall’alto valore simbolico in cui si uccidono valori oltre che uomini, i volontari ci sono da una parte e dall’altra. Anzi quelli partiti per andare in Sira a combattere con l’Isis sono molti di più di quelli arrivati per combattere contro l’Isis. E perfino la legge Alfano, approvata quattro anni fa per punire i cosiddetti foreign fighters in nome della lotta al terrorismo, rimane piuttosto ambigua anche nei confronti di chi parte per andare a combattere dalla parte opposta.

Certamente Lorenzo Orsetti aveva scelto la parte più giusta e più nobile e, per quanto è possibile in ogni guerra che è sempre sporca, anche la più pulita rispetto ad orrori e crimini di guerra. Aveva scelto di andare a combattere l’Isis senza confonderlo con l’islam perché correva a difendere un popolo musulmano contro il terrorismo musulmano, si era schierato a fianco della nazione curda che è la più numerosa fra quelle a cui da sempre è negato di avere uno stato e a fianco di una organizzazione politica che dice di ispirarsi ad ideali di giustizia e di uguaglianza come il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan).

Eppure mai i volontari stranieri hanno deciso le sorti di una guerra, come certo non l’hanno decisa i circa duecento stranieri giunti a dare man forte a quarantamila curdi. Ed ora che la guerra contro l’Isis almeno sul terreno sembra finita, i curdi dovranno di nuovo fare i conti contro la Siria e la Turchia entrambe ben decise a non premiare il loro eroismo con il regalo di uno stato. Ma uomini come Lorenzo Orsetti non vanno tanto a portare soccorso a uomini, quanto a valori. E più per dare un senso alla propria vita che per dare un senso ad una storia.