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Sì al «testamento», purché non sia una scelta di morte

di Marco DoldiLa lettera di Piergiorgio Welby, malato terminale, al presidente della Repubblica e la risposta dello stesso presidente con la richiesta di un approfondimento del problema in Parlamento, hanno ridato il via al dibattito sull’eutanasia. I testamenti di vita, di per sé, sono un fatto positivo, perché esprimono la consapevolezza della persona di confrontarsi responsabilmente con la propria fine; in un contesto culturale in cui la morte è stata rimossa, è certamente apprezzabile tornare a pensarvi come ad un evento che appartiene all’uomo. Una loro fragilità di fondo è che, per quando precise possano essere, lo stato di malattia e l’evento del morire restano sempre, in un certo senso, eventi unici ed irripetibili. È davvero difficile che una persona in salute o all’inizio della sua malattia riesca a pianificare in tutto situazioni che si verificheranno nel futuro.

Più profondamente, il vero problema è quello dei contenuti di tali testamenti: non si può nascondere che, se quasi tutti riconoscano come pertinenti le direttive anticipate, in realtà il punto di partenza, la cultura di fondo, è ben diversa.

Già nel 1974 la rivista «The Humanist» pubblicava il Manifesto sull’eutanasia, dove da presupposti ideologici, si traevano conseguenze comportamentali. L’uomo sarebbe sorto per caso e vivrebbe in un universo frutto del caso; egli sarebbe arbitro di sé, non dovrebbe rispondere a nessuno delle proprie scelte e non avrebbe altro riferimento che quello della ragione scientifica; da queste premesse gli estensori facevano scaturire che «è immorale accettare o imporre la sofferenza. Crediamo – scrivevano – nel valore e nella dignità dell’individuo; ciò implica che lo si lasci libero di decidere ragionevolmente della propria sorte. È crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere e che le si rifiuti l’auspicata liberazione, quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire. La sofferenza è inutile, è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate».

Negli anni sono sorti veri e propri movimenti a favore dell’eutanasia, i quali facilmente utilizzano il testamento biologico come lo strumento per esercitare la propria scelta autonoma, la quale dovrebbe essere da tutti rispettata. Ma può essere accettata una tale esasperazione della libertà individuale? No, perché l’autonomia della persona ha come presupposto il fatto di «essere vivi» e impegna la responsabilità dell’individuo che è «libero per» fare il bene secondo la verità; in questo caso, riconoscendo di aver ricevuto la vita e di non esserne il padrone assoluto.

Togliersi la vita significa distruggere le radici stesse della propria libertà. Al riguardo, il cardinale Camillo Ruini, nella prolusione del 18 settembre al Consiglio episcopale permanente, ha osservato che «il principio di autodeterminazione non può essere anteposto infatti al rispetto della vita del paziente, e nemmeno della coscienza del medico chiamato a dare applicazione alle volontà anticipate dal paziente stesso».In un contesto ben diverso devono essere pensati la malattia, la sofferenza, il morire e, soprattutto, l’assistenza al paziente. Talune richieste di morte da parte di persone gravemente sofferenti sono, in realtà, la traduzione estrema di un’accorata richiesta di ricevere più attenzione e vicinanza umana, oltre a cure appropriate. Tali legittime richieste trovano accoglienza nelle nostre strutture sanitarie, nei domicili ove vivono malati non guaribili? O, talvolta, la persona malata è affidata unicamente ai familiari? La «Carta degli Operatori Sanitari» opportunamente nota: «l’ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana, non cade nella depressione e nell’angoscia di chi si sente abbandonato al suo destino di sofferenza e di morte e chiede di farla finita con la vita. È per questo che l’eutanasia è una sconfitta di chi la teorizza, la decide e la pratica» (149).

In realtà, sarebbe bene domandarsi se la motivazione della insopportabilità del dolore del paziente, non sia da leggersi come l’incapacità dei sani di accompagnare la persona attraverso la sofferenza e la malattia, che sono così di scandalo per la società del benessere e dell’edonismo.

L’inganno della «dolce morte»