Toscana

Il centenario di don Milani. Le storie degli ex allievi: “Fiorella, ma io lassù ho voi”. La risposta di un ricco altruista

Non era scontato imparare a farlo, per lei che fin dalla più tenera età doveva dare una mano ai suoi nel lavoro nei campi e nella stalla. Nei poderi mezzadrili del dopoguerra, un figlio o una figlia erano sì bocche in più da sfamare ma anche braccia in più per tirare avanti.

Fiorella Tagliaferri ci accoglie con il marito Gianpaolo Bonini, anche lui allievo del priore. Come del resto un altro Tagliaferri, Giancarlo, fratello di lei e cognato di Gianpaolo, che oggi abita a Pescia. Parenti che devono davvero molto a quel sacerdote che si faceva in quattro per loro: e la loro gratitudine nei suoi confronti non è certo venuta meno. Come i modi di fare: il rispettoso «lei» con cui ci rivolgiamo a Giampaolo al momento dell’arrivo dura lo spazio di un respiro. «Ci si deve dare del tu come diceva il priore», protestano all’unisono. «Lui – spiega Fiorella – diceva che il tu ci avvicina e il lei ci allontana. Il tu non è maleducazione ma voglia di trovare un rapporto, un’affinità con l’altro. Anche alle persone importanti che venivano a Barbiana ci faceva dare del tu».

Fiorella e Gianpaolo sono quasi coetanei, lei del ’48 e lui del ’49. Hanno tanti ricordi da raccontare e specialmente Fiorella è davvero un fiume in piena. Segno di una bella personalità e un bel carattere, come si capisce ben presto ascoltandola, ma anche di una vita cambiata da quell’incontro, come mette subito in chiaro: «Sentivo che gli importava di me, era la prima persona grande, adulta, intelligente e colta che si perdeva con me. Mi dedicava il suo tempo e questa è la cosa più bella, che mi è rimasta tutta la vita». E per spiegarsi meglio racconta quanto fosse difficile per lei andare a lezione e quanto don Lorenzo insistesse: «Mio fratello – ricorda – ha avuto la fortuna di stare a scuola a tempo pieno, io no. Già prendere lui è stata un’impresa perché non è stato come per tanti ragazzi che il priore andava a chiedere e i genitori glieli davano subito: mio fratello non volevano darglielo, dicevano che il padrone aveva dato loro il podere per otto braccia e senza Giancarlo sarebbero diventate sei. E lui stava su un muretto ad aspettare, sotto l’acqua o sotto la neve, a fare una forma di sciopero per avere mio fratello a scuola. Poi quando è riuscito a prendere Giancarlo voleva anche me perché mi diceva che io non valevo meno di lui, dovevo smettere di considerarmi meno di lui solo perché femmina. Così dopo aver pulito stalle e maiali chiedevo alla mamma di poter andare a scuola: allora non era un diritto».

Grazie alla sua intelligenza e a una bella memoria, Fiorella seppe farsi valere. «Anche se ho perso tanti giorni di scuola, posso dire che qualcosa mi ha dato e mi è servito per tutta la vita. Credo di essere stata l’unica che potevo arrivare a tutte le ore: il priore non permetteva a nessuno di fare tardi. Lui voleva che io fossi alla pari degli altri bambini e ci sono riuscita perché ho lo stesso diploma che hanno gli altri. So ancora un po’ di francese, anche se sono più indietro di altri…».

Gianpaolo, invece, non aveva problemi di frequenza, solo che della scuola non ne voleva sapere. «Stavo a Vicchio – racconta – e la povertà non l’ho conosciuta: avevamo una casa di proprietà poi i miei comprarono un appartamento grande nel centro del paese. Ma non avevo voglia di studiare e allora mia mamma volle che andassi anch’io da don Milani: convinse il babbo a comprarmi un motorino che a 13 anni non si poteva guidare, ma il maresciallo dei carabinieri avrebbe chiuso un occhio solo per il tratto andata e ritorno con Barbiana. La prima volta mi accompagnarono i miei, perché il babbo aveva la macchina: pensavano di presentarmi al priore e basta, invece quando arrivai mi fecero un’accoglienza meravigliosa, cosa che non mi aspettavo proprio. La scuola la odiavo proprio, ma vidi che lì don Milani era insieme ai ragazzi a insegnare: non c’erano cattedre, voti, banchi e non c’era l’autorità del professore o del maestro. Ma soprattutto mi colpì quello che quei ragazzi facevano in quel momento: studiavano la Costituzione, che non sapevo nemmeno cosa fosse».

Così il rapporto con lo studio cambiò, Giampaolo continuò ad andare a scuola a Vicchio ma d’estate e tutte le domeniche a Messa era a Barbiana. «A un certo punto la professoressa di lettere disse alla mamma: “Guardi, l’anno scorso aveva in testa le ragazzine; quest’anno invece ha un’altra cosa, sa cosa legge? La Costituzione!”. Allora tornata a casa la sera disse al babbo: quel delinquente legge porcherie, digli qualcosa! Perché nemmeno loro sapevano cosa fosse la Costituzione. Lo raccontai a don Milani che stava mettendo in cantiere “Lettera a una professoressa”: figurati se quello non era un fatto da tenere in considerazione».«La caratteristica più evidente di don Milani – riprende Fiorella – è l’altruismo: dare agli altri quello che si ha. Lui aveva la cultura e ci dava quella, poi ci trattava con tenerezza paterna, maschi e femmine tutti uguali (noi femmine, tra l’altro siamo ancora tutte in vita). Ho scoperto che era di famiglia ricca solo un anno dopo averlo conosciuto: aveva i sandalacci, i capelli spesso da tagliare, la tonaca tutta sfilacciata… L’ho scoperto quel giorno che siamo andati a casa sua a Montespertoli. Gli dissi: “Ma priore allora tu sei ricco, perché non stai qui? C’è anche la cappella e mangi bene ogni giorno”. E lui mi rispose: “Ma Fiorella io lassù ho voi”, come dire che noi eravamo più importanti della ricchezza».

I ricordi sono ancora tanti, manca però lo spazio per riportarli tutti. E manca Giancarlo Tagliaferri, classe 1945 e quasi 78 anni di età, che dobbiamo contattare per telefono data la relativa distanza. Ci ricorda il suo arrivo alla scuola di Barbiana, dopo le elementari a Vicchio, con altri cinque ragazzi, e anche un brutto periodo felicemente superato: «Mi sono ammalato quando facevo la terza avviamento nel 1960, cominciai a non sentirmi più i ginocchi. Il fratello di don Milani, Adriano, era un medico importante nel campo della riabilitazione; allora mi portò da lui che diagnosticò una sindrome che si curava col cortisone. Mi portò al Meyer dove c’era il polmone d’acciaio: ci sono stato 70-80 giorni perché mi sono trovato paralizzato a letto; don Milani veniva a trovarmi appena poteva». Dopo Barbiana, diventato geometra, ha lavorato come impresario nel campo dell’edilizia. Confessa di non frequentare più le chiese («vedo troppe ingiustizie, in compenso ci va mia moglie…») ma non dimentica il priore e il suo insegnamento: «Era un bravissimo maestro, sapeva tantissime cose e le sapeva spiegare, non si trovano degli insegnanti come lui che si dedicano ai ragazzi dodici ore al giorno compresa la domenica. Lo definirei un caso unico, irripetibile, così come la scuola di Barbiana. La cosa più bella che mi ha insegnato è dire la verità, sempre. E io l’ho preso alla lettera».