Toscana

Il fascino perenne degli antichi mestieri

DI MARCO LAPIVedere impagliare a mano i fiaschi con l’«erba sala» o cucire i celeberrimi ma ormai scomparsi cappelli di paglia di Firenze (ma in realtà di Signa) è davvero uno spettacolo. E lo spettacolo è stato offerto la settimana scorsa ad Arezzo nel corso della rassegna Agri&Tour dallo stand organizzato dall’Arsia, l’Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione agricola e forestale, che è riusciata a mettere insieme un bel po’ di antichi mestieri, diciamo così, a nuova vita restituiti. C’era appunto la signora Leonia, simpaticissima impagliatrice di fiaschi di Pelago, e c’erano gli anziani di Pruno e Volegno di Stazzema messi assieme dall’associazione «I raggi di Belen» e capaci di fare canestri, gerle, «stie» per portare il fieno e zoccoli di legno da mettere ai piedi come si usava quando le scarpe erano un lusso per pochi. E poi c’erano appunto le signore del Museo della paglia e dell’intreccio di Signa, capaci di cucire le perfette «pagliette» tanto care a Odoardo Spadaro o eleganti copricapo da signora, ma forse non più di realizzare a mano il «treccino» più o meno largo e spesso, come sapevano fare con gesto automatico le loro nonne. Perché quello ora è fatto a macchina e viene, manco a dirlo, dalla Cina. C’era invece da stupirsi per la facilità d’uso al vecchio telaio a mano del cutiglianese Silio Giannini, da lui stesso realizzato sulla base dei modelli di oltre un secolo fa, e c’erano poi da ammirare i cesti in legno del bibbienese Marino Mazzi e del gavinanese Enrico Terreni: ma il banco più affollato era quello delle attempate sigaraie di Chitignano capaci di confezionare a mano perfetti toscani.

Mestieri di un tempo che fu, che tendono almeno in parte a scomparire ma capaci ancora di suscitare ammirazione e interesse tanto da fare dello stand dell’Arsia il più affollato di tutta la manifestazione che pure offriva tanti allettanti stand prevalentemente enogastronomici. Buon segno, dunque, se fame e sete di conoscenza del nostro passato superano, o almeno stanno alla pari con la voglia di degustare un formaggio tipico o un ottimo vino. Il problema è che sempre meno giovani intendono imparare i vecchi lavori, che scompariranno del tutto se un giorno verrà meno il cosiddetto «know how», ovvero il relativo «sapere», il «mestiere» tout court, la particolare competenza e manualità collegata ad ognuna di queste realizzazioni. Ci vorrebbe un minimo di intervento pubblico per favorire il perdurare di queste attività, almeno laddove possibile, soprattutto dove sono richiesti interventi di ripristino o restauro strutturale altrimenti impossibili. E non è detto che non ci sia un ritorno economico perché alcuni prodotti, come la cesteria in genere e in particolare le grandi ceste di castagno, sembrano aver trovato una nuova giovinezza.