Toscana
Il mondo ha fame e non solo di pace

Ma numerosi altri conflitti rimangono aperti: in Sudan, nel Burundi, in Colombia, nel Cachemir. Il terrorismo a sua volta crea tensioni che possono essere altrettanto sanguinose di una guerra civile. Se il terrorismo che ha fatto oltre centomila morti in Algeria sembra in via di esaurimento, altrove anche laddove il cosiddetto «terrorismo islamico» non c’entra per niente come nel caso dello Sri Lanka, non si arrende. Segno che il male non sta tanto dentro una cultura quanto dentro gli uomini del nostro tempo. Se in Afganistan, è possibile forse intravedere, dopo venticinque anni di guerre, una qualche uscita dal tunnel, in Iraq la pacificazione è ancora di fatto lontana, nonostante le elezioni ormai imminenti con un tributo di sangue sempre più alto da parte della popolazione irachena e delle truppe occupanti. In Palestina la svolta immaginata dopo la scomparsa di Arafat è ancora lontana da produrre frutti concreti, nonostante la probabile elezione di un moderato come Abu Mazen alla guida dell’Autorità nazionale palestinese e le nuove aperture di un uomo ritenuto finora un «falco» come Ariel Sharon.
D’altra parte l’instabilità nel mondo ha le sue premesse nella lentezza sempre più esasperante con cui si vede affrontare la piaga della povertà e del sottosviluppo. Già nel 1996 la Fao aveva previsto di dimezzare entro il 2015 il numero di 800 milioni di affamati che si contano ancora nel mondo. Questo obiettivo in fondo più gradualistico che utopistico, è stato ripetuto solennemente al vertice del Millennio organizzato dall’Onu nel settembre 2000 e nei vertici successivi di Johannesburg (2001), di Monterry (2001) e di Doha (2002).
In genere gli aiuti ai paesi in via di sviluppo non godono oggi di buona stampa per le accuse di corruzione che pesano sul loro uso e per l’effetto dumping sui prodotti locali che spesso si sono trascinati dietro. C’è bisogno certamente di un quadro di trasparenza fuori della gestione dei governi locali e occorre superare l’uso dei paesi poveri come discarica delle eccedenze alimentari dei paesi ricchi. E tuttavia non è possibile mandare tutti a scuola, ridurre la mortalità infantile, combattere le epidemie come quella del paludismo e dell’Aids, offrire ovunque acqua potabile (obiettivi tutti anche questi dei progetti dell’Onu per il Millennio) senza un aumento consistente degli aiuti.
Il 93% dei morti in guerra sono civili inermi
Aumentano le vittime civili dei numerosi conflitti che si combattono nel mondo. Costituiscono il 93% dei «caduti in guerra». Uomini, donne e bambini che con la guerra non hanno niente a che fare. Solo in Iraq sono 100 mila le vittime civili dei combattimenti dall’inizio dell’occupazione. Ma non c’è solo l’Iraq. Anzi, la nuova ricerca promossa da Caritas Italiana con «Famiglia Cristiana» e «Il Regno», che ha per titolo «Dai conflitti dimenticati alle guerre senza tempo» e che uscirà i primi mesi del 2005, mette in luce la complessità dei conflitti di tutto il pianeta e il livello di attenzione dell’opinione pubblica.
La ricerca sottolinea che, a fronte dei 19 conflitti armati «di rilievo», come li definisce una stringente categoria tecnica Algeria, Burundi, Colombia, Filippine, India, Indonesia, Iraq, Israele-Palestina, Russia (Cecenia), Sudan, ecc. si registrano violenze su ampia scala e un numero altissimo di vittime in molti altri paesi come Afghanistan, Rep. Dem. del Congo, Kenya, Nigeria, Pakistan. Il numero dei conflitti effettivi è dunque notevolmente più alto.
È parte della ricerca il sondaggio effettuato da SWG. Arrivano da lì le note più positive. Riguardano le risposte che il campione rappresentativo di italiani ha fornito: la guerra è un elemento evitabile (76%) e non esistono «guerre giuste» (78%). Inoltre, tra le voci che più spesso si alzano in queste situazioni di crisi contro la guerra e contro l’ingiustizia, la maggioranza degli intervistati, il 42%, ha indicato il Papa e la Chiesa Cattolica, con 5 punti percentuali in più rispetto al 2001. L’80% sostiene poi che il ruolo dell’Onu dovrebbe essere potenziato, mentre il 91% ritiene che non ci siano Paesi al sicuro da attacchi terroristici.
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