Toscana

Il mondo ha fame e non solo di pace

di Romanello CantiniSolo negli ultimi quattordici anni, a partire dagli anni ’90, le guerre nel mondo hanno fatto oltre cinque milioni di morti. Alcuni di questi conflitti si sono chiusi per fortuna recentemente. È il caso delle lunghe guerre civili dell’Angola e del Mozambico. È il caso anche dei conflitti in Liberia e in Sierra Leone sedati seppure dentro un equilibrio precario. Altri conflitti, come quello fra Etiopia ed Eritrea e la guerra civile in Somalia, sono entrati nella fase della trattativa. In questi casi è stato possibile, come scrive il Papa nel suo messaggio per la giornata della pace, sconfiggere «con il bene il male».

Ma numerosi altri conflitti rimangono aperti: in Sudan, nel Burundi, in Colombia, nel Cachemir. Il terrorismo a sua volta crea tensioni che possono essere altrettanto sanguinose di una guerra civile. Se il terrorismo che ha fatto oltre centomila morti in Algeria sembra in via di esaurimento, altrove anche laddove il cosiddetto «terrorismo islamico» non c’entra per niente come nel caso dello Sri Lanka, non si arrende. Segno che il male non sta tanto dentro una cultura quanto dentro gli uomini del nostro tempo. Se in Afganistan, è possibile forse intravedere, dopo venticinque anni di guerre, una qualche uscita dal tunnel, in Iraq la pacificazione è ancora di fatto lontana, nonostante le elezioni ormai imminenti con un tributo di sangue sempre più alto da parte della popolazione irachena e delle truppe occupanti. In Palestina la svolta immaginata dopo la scomparsa di Arafat è ancora lontana da produrre frutti concreti, nonostante la probabile elezione di un moderato come Abu Mazen alla guida dell’Autorità nazionale palestinese e le nuove aperture di un uomo ritenuto finora un «falco» come Ariel Sharon.

D’altra parte l’instabilità nel mondo ha le sue premesse nella lentezza sempre più esasperante con cui si vede affrontare la piaga della povertà e del sottosviluppo. Già nel 1996 la Fao aveva previsto di dimezzare entro il 2015 il numero di 800 milioni di affamati che si contano ancora nel mondo. Questo obiettivo in fondo più gradualistico che utopistico, è stato ripetuto solennemente al vertice del Millennio organizzato dall’Onu nel settembre 2000 e nei vertici successivi di Johannesburg (2001), di Monterry (2001) e di Doha (2002).

Ma ora, come ha ricordato il presidente della Fao Jacques Diouf, ci si accorge che gli affamati, anziché diminuire di 22 milioni all’anno, come previsto in quel progetto, si riducono solo di sei milioni. Il che lascia prevedere che la fame sarà ridotta alla metà, se lo sarà, non nel 2015, ma nella seconda metà di questo secolo. E non possiamo immaginare nemmeno quando sarà sconfitta definitivamente.Se infatti molti paesi dell’Asia, fra cui la Cina e l’India, stanno riducendo le loro sacche di povertà interne, al contrario ben 54 paesi, fra cui trenta paesi africani, sono oggi più poveri di otto anni fa. Fra i paesi in cui gli affamati sono oltre la metà della popolazione ci sono Stati che, come la Somalia, il Burundi, la Repubblica democratica del Congo, il Mozambico, l’Angola, l’Eritrea, sono stati devastati dalla violenza interna fino ad ieri a dimostrazione del nesso tremendo che si crea fra la guerra e la fame.

In genere gli aiuti ai paesi in via di sviluppo non godono oggi di buona stampa per le accuse di corruzione che pesano sul loro uso e per l’effetto dumping sui prodotti locali che spesso si sono trascinati dietro. C’è bisogno certamente di un quadro di trasparenza fuori della gestione dei governi locali e occorre superare l’uso dei paesi poveri come discarica delle eccedenze alimentari dei paesi ricchi. E tuttavia non è possibile mandare tutti a scuola, ridurre la mortalità infantile, combattere le epidemie come quella del paludismo e dell’Aids, offrire ovunque acqua potabile (obiettivi tutti anche questi dei progetti dell’Onu per il Millennio) senza un aumento consistente degli aiuti.

Già nel lontano 1969 l’Onu aveva previsto un contributo dei paesi ricchi in ragione dello 0,7% del loro prodotto interno lordo. Questo obiettivo non è stato mai raggiunto salvo lodevoli eccezioni come i Paesi Bassi, la Danimarca o la Svezia. Oggi gli Stati Uniti consacrano agli aiuti allo sviluppo solo lo 0,1% del loro prodotto interno e l’Europa in media versa lo 0,3% della sua ricchezza. Nessun obiettivo di sviluppo è raggiungibile in tempi ragionevoli se non si raddoppiano almeno i 50 miliardi di aiuto mondiale a cui siamo scesi attualmente dopo una diminuzione di oltre il 20% solo a partire dagli anni ’90. Solo la somma delle sovvenzioni statunitensi e europee alle proprie agricolture comporta una spesa annuale sette volte maggiore di quella che tutto il pianeta dedica alla lotta contro la povertà. Eppure, come ricorda il Papa «l’appartenenza alla famiglia umana conferisce alla persona una specie di cittadinanza mondiale».

Il 93% dei morti in guerra sono civili inermi

Aumentano le vittime civili dei numerosi conflitti che si combattono nel mondo. Costituiscono il 93% dei «caduti in guerra». Uomini, donne e bambini che con la guerra non hanno niente a che fare. Solo in Iraq sono 100 mila le vittime civili dei combattimenti dall’inizio dell’occupazione. Ma non c’è solo l’Iraq. Anzi, la nuova ricerca promossa da Caritas Italiana con «Famiglia Cristiana» e «Il Regno», che ha per titolo «Dai conflitti dimenticati alle guerre senza tempo» e che uscirà i primi mesi del 2005, mette in luce la complessità dei conflitti di tutto il pianeta e il livello di attenzione dell’opinione pubblica.

La ricerca sottolinea che, a fronte dei 19 conflitti armati «di rilievo», come li definisce una stringente categoria tecnica – Algeria, Burundi, Colombia, Filippine, India, Indonesia, Iraq, Israele-Palestina, Russia (Cecenia), Sudan, ecc. – si registrano violenze su ampia scala e un numero altissimo di vittime in molti altri paesi come Afghanistan, Rep. Dem. del Congo, Kenya, Nigeria, Pakistan. Il numero dei conflitti effettivi è dunque notevolmente più alto.

Evidente la relazione fra conflitti armati e dinamiche di impoverimento. Lo dice l’alta percentuale di guerre che continuano ad esplodere nei Paesi in via di sviluppo. Il 90% dei conflitti nasce proprio in quei Paesi meno fortunati.Altre cifre dalla ricerca: 35,5 milioni di rifugiati, 300 mila minori impiegati in conflitti. Tra tanti dati preoccupanti, anche qualche barlume di speranza. È costituita dalle situazioni risolte o in netto miglioramento di paesi come Etiopia ed Eritrea, Guinea Bissau, Sierra Leone.

È parte della ricerca il sondaggio effettuato da SWG. Arrivano da lì le note più positive. Riguardano le risposte che il campione rappresentativo di italiani ha fornito: la guerra è un elemento evitabile (76%) e non esistono «guerre giuste» (78%). Inoltre, tra le voci che più spesso si alzano in queste situazioni di crisi contro la guerra e contro l’ingiustizia, la maggioranza degli intervistati, il 42%, ha indicato il Papa e la Chiesa Cattolica, con 5 punti percentuali in più rispetto al 2001. L’80% sostiene poi che il ruolo dell’Onu dovrebbe essere potenziato, mentre il 91% ritiene che non ci siano Paesi al sicuro da attacchi terroristici.

Commercio delle armidalla Toscana il primo «Annuario»Arriva dalla Toscana il primo «Annuario Armi-disarmo Giorgio La Pira», un’imponente opera di documentazione che colma una lacuna nel nostro paese e fornisce solide basi scientifiche a chi si interessa di cultura di pace. Il volume, dal titolo «Commercio delle armi. L’Italia nel contesto internazionale» (Jaka Book, 396 pp, 20 e), commissionato dalla Regione Toscana all’Osservatorio permanente sul commercio delle armi di Ires Toscana, è stato curato da Chiara Bonaiuti e Achille Lodovisi e si avvale anche dei contributi di Francesco Terreri e M. Cristina Zadra. La serietà del lavoro è stata «certificata» dal generale Fabio Mini, che durante la presentazione ufficiale del volume, assieme al presidente della giunta regionale Claudio Martini, lo ha definito «obiettivo» e capace di «far pensare», uno strumento «utile» – ha aggiunto con ironia – «anche a chi si occupa di guerra». Quattro le aree tematiche tutte corredate da una preziosa documentazione e da efficaci tabelle: le esportazioni di armi sia italiane che di altri paesi, la spesa militare in Italia e nel mondo, la regolamentazione europea del commercio delle armi e, infine, la presenza delle armi di distruzione di massa nel vicino Oriente e in Africa settentrionale. Per Claudio Martini oltre l’interesse documentale il volume può favorire una ripresa del dibattito sul disarmo, un po’ appannato in questi ultimi anni, e un impegno per la pace lontano da estremismi.

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