Toscana

Quelle guerre non combattute che affamano e distruggono

di Romanello Cantini

Che ne è della pace nel mondo oggi? È noto che negli ultimi venti anni le guerre nel mondo, almeno quelle tradizionali, stanno diminuendo. In questo periodo è praticamente scomparsa la classica guerra fra due stati. Anche diverse delle innumerevoli guerre civili della seconda metà del secolo scorso hanno trovato una fine o almeno una pausa. Ma altre sono diventate ancora più drammatiche e altre rischiano di aprirsi, mentre addirittura nuovi tipi di guerra si profilano all’orizzonte.

Alla fine di quest’anno anche le guerre più note sembra che stiano per finire ma probabilmente non finiranno. Dall’Iraq gli ultimi soldati americani se ne sono andati domenica scorsa. Ma il costo di quasi nove anni di guerra è altissimo: 115000 civili uccisi (secondo il Brookings Institute, l’organizzazione indipendente di ricerca di Washington), 4.500 soldati americani e 500 del resto della coalizione morti, quattro milioni di emigrati dal paese, i cristiani iracheni ridotti a meno della metà, 3.000 miliardi di dollari il prezzo di tutta l’operazione (secondo l’economista americano nonché premio Nobel Joseph Stiglitz). E nulla garantisce che il paese lasciato a se stesso non ripiombi nella guerra civile e sia fatto a pezzi fra curdi, sunniti e sciiti.

Anche in Afghanistan le prime truppe Nato cominciano lentamente a lasciare il paese e dovrebbero ritirarsi tutte entro il 2014. Ma qui le previsioni per il futuro sono ancora più fosche. Con l’assassinio, il 20 settembre scorso, del mediatore Burhanuddin Rabbani per mezzo di un kamikaze con la bomba nel turbante i talebani hanno fatto sapere a modo loro che non intendono venire a quel compromesso con il governo Barzai su cui si puntava per far finire una guerra che con protagonisti diversi dura nel paese da trentuno anni. Il futuro del paese senza truppe straniere e senza fondamentalisti islamici dovrebbe essere affidato ad un esercito da cui disertano il venti per cento di soldati all’anno, massacrato dai talebani che vi si arruolano ma per compiere attentati e che non potrà essere pagato nei suoi ipotetici trecentomila uomini dal governo di Kabul per più di un terzo.

Poi ci sono le guerre civili che non cessano semplicemente per il fatto che si dimenticano. Per la verità in Africa dove questa guerre hanno imperversato alla fine del secolo scorso sono stare raggiunte delle paci o almeno delle tregue più o meno precarie. Nel 2003 in Liberia con gli accordi di Accra è stata posta fine ad una lunga e feroce guerra fra governativi e ribelli. Nello stesso anno nella Repubblica Centrafricana si è tenuta una conferenza di riconciliazione per mettere fine ad una altrettanto lunga guerra civile. In Sudan dopo una guerra civile fra Nord e Sud che in trenta anni ha fatto due milioni di morti si sono avuti gli accordi di pace del 2004 e dopo il referendum del gennaio scorso nel luglio è nato lo stato indipendente del Sud. Al contrario in Costa d’Avorio dopo un tentativi di tregua nel 2003 l’ex presidente Laurent Ghagbo, sconfitto alle elezioni dell’inizio di quest’anno e prima di essere arrestato e consegnato al tribunale penale internazionale un mese fa, ha ripreso una guerra civile che in soli due mesi della primavera scorsa ha fatto tremila morti.

Molto più tragica è diventata la situazione in Somalia. Nella nostra ex-colonia c’è ormai di tutto fuorché uno stato che manca da venti anni: truppe per cosi dire governative e milizie degli integralisti islamici, eserciti privati dei signori della guerra locali, truppe dell’Uganda per conto dell’Onu e truppe dell’Etiopia per conto degli americani, truppe del Kenia per conto proprio e pirati in cinque porti della costa. In un caos sanguinoso in cui perfino gli aiuti umanitari vanno in gran parte nel pizzo pagato ad ogni compagnia di ventura si muore più di fame che di guerra in un paese in cui due milioni di profughi vivono sotto le tende e più di un milione ha cercato di fuggire nei paesi vicini.

Nella Repubblica Democratica del Congo, dove in questi giorni ha vinto formalmente le elezioni il solito Joseph Kabila, non si muore più a milioni come negli ultimi anni del secolo scorso, ma, nonostante una pace teoricamente concordata nel 2008, sono ripresi gli scontri fra governativi e bande armate e tra guerra, carestia e malattie le vittime sono calcolate ancora in migliaia ogni mese.

E accanto alla guerre civili in cui la guerra sembra giustificarsi solo per se stessa, senza nemmeno uno straccio di bandiera ideologica, come mezzo per trovare comunque ruolo e potere nella violenza e per accaparrarsi ricchezze, altrove la stessa criminalità organizzata come prima industria nazionale si trasforma in eterna guerra civile e la lotta contro una criminalità gigantesca si trasforma a sua volta in un crimine spesso peggiore di quello che si vuole combattere. L’esempio classico è ormai quello della Colombia dove, dopo il fallito tentativo di pace del 2002 del presidente Uribe fra governo e guerriglieri delle Farc, nonostante i capi della guerriglia ammazzati uno dopo l’altro, la guerra interna acquista sempre più dimensioni tragiche con migliaia di sequestri da un lato e dall’altro con migliaia di omicidi e di sparizioni ogni anno operati dai paramilitari, con trasferimenti forzate di milioni di abitanti e fosse comuni che sempre più spesso diventano macabra archeologia.

Ormai lentamente sembra avviarsi sulla stessa strada anche il Messico con i suoi cinquantamila morti legati al narcotraffico negli ultimi tre anni, il Salvador con il suo indice di omicidi per abitante più alto del mondo e perfino il Venezuela con oltre centomila omicidi commessi nell’ultimo decennio.Nel frattempo si comincia sempre a considerare guerra tipo di guerra che è pur sempre un nuovo tipo di invasione e di devastazione di un territorio anche se non avviene attraverso l’esercito e le armi. Si tratta delle cosiddette «catastrofi naturali» sempre più frequenti che si attribuiscono al riscaldamento del pianeta provocato dall’inquinamento dell’atmosfera ad opera soprattutto dei paesi più ricchi. Il 2010 è stato un anno particolarmente disastroso da questo punto di vista. In Russia si sono avuti 56 mila morti per il terribile caldo estivo, in Pakistan 1.760 morti per le inondazioni di luglio e settembre e in Cina 1.470 vittime per le inondazioni di agosto. In Pakistan l’alluvione dell’Indo si è ripetuta questa estate con due milioni di ettari di coltivazioni distrutte, mentre anche in questi giorni le vittime della inondazione nelle Filippine già si contano a molte centinaia. Il sociologo tedesco Harald Welzer nel suo libro Le guerre climatiche. Per cosa uccideranno gli uomini nel XXI secolo ha spiegato con l’erosione del suolo intorno al Sahara le guerre scoppiate in questa parte dell’Africa nella seconda metà del secolo scorso. D’altra parte anche le rivolte nel Nordafrica che hanno portato alla cosiddetta «primavera araba» sono nate come «rivolte del pane» per la siccità che ha ridotto la produzione locale e per il ricorso alle importazioni in un periodo il cui prezzo dei cereali cresceva enormemente per gli enormi incendi in Russia e le alluvioni in Cina e in Australia. Ormai questa tassa in vite e in natura che si deve pagare all’inquinamento sta già diventando uno scontro a livello mondiale. Già al vertice di Copenhaghen di due anni i paesi poveri chiesero per questi danni enormi ai paesi ricchi un indennizzo di 150 miliardi di dollari.

Perfino la crisi economica mondiale in atto può avere conseguenze nella collaborazione e nella coesistenza fra i popoli. Nella stessa Europa citata sempre come grande esempio di oasi di pace degli ultimi sessanta anni non si vede certamente nei confronti della crisi dell’euro la stessa solidarietà che sessanta anni fa condusse Adenauer, Schuman e De Gasperi a mettere in comune l’acciaio e il carbone europeo. Per quanto i paragoni storici siano sempre azzardati qualcuno ha già ricordato che la situazione attuale può ricordare gli Anni Trenta del secolo scorso quando crisi economica e crisi politica coincisero e nell’egoismo generale prevalse la formula «considera il tuo vicino come un miserabile».

«Educare i giovani alla pace», il messaggio del Papa