Toscana

Speciale 30° Georgofili: perché la mafia scelse di colpire Firenze

Tra il 14 maggio e il 28 luglio 1993 l’Italia pianse dieci innocenti, decine di feriti e danni irreparabili al patrimonio artistico. Roma, Firenze e Milano furono scosse – e una per ben tre volte – dal rombo devastante dell’esplosivo. Per settimane, per mesi, le città mostrarono agli occhi di tutti le loro ferite. Per interi quartieri occorsero giorni e giorni prima che la vita ricominciasse a scorrere con una qualche regolarità e purtuttavia a ferite ancora aperte, prima che le persone potessero riprendere a condurre le consuetudini e gli impegni di vita ordinari.

A 30 anni di distanza le ragioni di quella strategia terroristica sono state quasi del tutto individuate: gli uomini che azionarono le autobombe in nome e per conto di Cosa nostra, e chissà per quali altri mandanti, volevano costringere lo Stato a far marcia indietro sul «carcere duro» per i boss mafiosi e sulla legge sui collaboratori di giustizia. Grazie al lavoro di un magistrato scrupoloso e di grande rigore morale e professionale come Gabriele Chelazzi, e a quello dei colleghi Piero Luigi Vigna, Francesco Fleury, Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, boss e gregari di Cosa nostra sono stati condannati definitivamente quali mandanti ed esecutori di quella stagione di terrore. Tra questi i capi della mafia siciliana: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro. Il processo, che si aprì a Firenze il 12 novembre 1996, si è chiuso in Cassazione il 6 maggio 2002: un record nell’Italia delle stragi impunite. Ma le indagini continuano. C’era ancora da spiegare, per esempio, perché tra un crimine e un altro intercorrono, in alcuni casi pochi giorni, in altri un periodo di tempo più lungo. C’era da spiegare perché non fu replicato il fallito attentato allo stadio Olimpico dove, il 23 gennaio del 1994, all’uscita della partita Roma-Udinese, sarebbe dovuta saltare in aria un’auto imbottita di esplosivo. E, ancora, c’è da capire perché a un certo punto le stragi finirono.

Ai magistrati il compito di rispondere a queste (e altre) domande. Noi possiamo chiederci come quella stagione di sangue è stata resa possibile. Mi spiego facendo un esempio. L’attentato di Sarajevo del 1914 è certamente qualcosa di imprevedibile (Gavrilo Princip avrebbe potuto fallire il bersaglio o la sua pistola incepparsi) ma lo scoppio della Prima guerra mondiale che esso innescò è un evento che non si sarebbe prodotto se non ci fosse stato materiale infiammabile in quantità sufficiente per provocare l’incendio. La risposta è che all’inizio del 1993 c’erano tutte le condizioni per l’avvio della campagna stragista di Cosa nostra. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, Stato e legalità erano, in certe zone del Paese, concetti vaghi, fumosi, contrastati, disprezzati, ridicolizzati e delegittimati. Un giudice calabrese arriverà a paragonare la presenza dello Stato in quelle regioni a quella della Croce rossa in zona di guerra: aiutare i feriti, tenere il conto dei morti e informare i parenti.

La rottura dell’impunità storica dei mafiosi siciliani con il maxiprocesso di Palermo era stata sicuramente la più grande azione giudiziaria, civile, sociale, culturale nella lunga storia della lotta alla mafia. Un evento epocale che, tuttavia, era rimasto eccezione: la storia degli anni successivi al «maxi» ci consegna un’Italia dove i magistrati di punta come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono isolati e derisi, la stessa magistratura è oggetto di pesanti attacchi da parte del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, numerose zone del Paese sono saldamente in mano alla criminalità organizzata e assicurare i boss alla giustizia è quasi impossibile.

A questo si aggiunge che tra gli anni Settanta e Ottanta Cosa Nostra si lasciò affascinare dai misfatti e dai successi del terrorismo di destra o di sinistra. Grazie alla lezione offerta dalla ‘lotta armata’ di matrice politica, i boss della mafia erano ormai consapevoli che i violenti avessero in passato (e avrebbero avuto in futuro) conseguito i fini che si proponevano vista l’incapacità del Paese nel suo complesso di contrastarli. La mattanza degli anni Ottanta a Palermo e in alcune regioni del Mezzogiorno, la lunga lista di omicidi di magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine e politici e lo spettacolo offerto dalle istituzioni repubblicane certamente convinsero la mafia di poter giocare con successo la carta del terrore.

Per Cosa nostra, dopo il maxiprocesso, il nemico non si incarnava più soltanto negli oppositori diretti sul territorio, ossia le forze dell’ordine e i magistrati che li perseguivano in prima persona. Bensì «lo Stato» e le sue leggi, che andavano allora piegati attuando un crescendo di azioni terroristiche su scala nazionale. E le cronache, inconsapevolmente, avevano offerto l’obiettivo: il patrimonio artistico. Non dimentichiamo che proprio in quegli anni il ministro ai beni culturali Alberto Ronchey aveva varato alcuni provvedimenti per innovare il sistema-cultura italiano, come la legge per dare efficienza a musei statali, biblioteche e archivi.

Il risultato finale fu la campagna di terrore della primavera-estate 1993. Il modus operandi fu sempre lo stesso: un’auto rubata, caricata di esplosivo e sistemata nelle vicinanze di un luogo dal grande valore culturale e simbolico: gli Uffizi, appunto, il padiglione di arte contemporanea a Milano, le chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma.

La logica del tutto nuova entro cui si muoveva Cosa Nostra era tipicamente terroristica e, ripeto, riprendeva da vicino l’esperienza dell’eversione degli anni Settanta. Da quella strategia mutuava la scelta di obiettivi simbolici: non già per sviluppare un ipotetico consenso di massa, quanto per dare l’impressione di poter colpire impunemente chiunque. Il messaggio era semplice e terrificante insieme: «Possiamo distruggere i capolavori artistici d’Italia».

Ma il ricatto, alla fine, è stato respinto.