Vita Chiesa

In Giordania per riallacciare i fili tra cristiani, ebrei e musulmani

dall’inviato Riccardo Bigi

Salam Aleikum: la pace sia con voi. Il saluto che Benedetto XVI ha rivolto ai trentamila arabi cristiani riuniti nello stadio di Amman riassume bene il senso della visita di Benedetto XVI in Giordania. Un viaggio di pace, un viaggio per ritrovare i fili di fraternità che legano ebrei, musulmani e cristiani. E la Giordania si è rivelata, per tanti aspetti, il luogo giusto in cui riallacciare il dialogo, in cui superare incomprensioni antiche e nuove.

«La mia visita in Giordania mi offre la gradita opportunità di esprimere il mio profondo rispetto per la comunità Musulmana» ha affermato il Papa fin dal suo arrivo, all’aeroporto di Amman. Parole a cui ha fatto eco il re Abdallah II: «Provocazioni, ideologie ambiziose che puntano a dividere, rappresentano la minaccia di sofferenze indicibili. Dobbiamo opporci a questa corrente per il futuro del mondo». E d’altra parte la Giordania ha costruito proprio sulla pace e la tolleranza il suo sviluppo, proponendosi come il Paese più accogliente del Medio Oriente, terra di incontri e di scambi. Qui i cristiani sono il 3%, una percentuale in diminuzione per motivi demografici e per l’emigrazione crescente. «Ma non ci sentiamo una minoranza» ci dice padre Eyad Bader, che accompagna alla Messa del Papa un gruppo di bambini della sua parrocchia, che riceveranno la prima Comunione. «Siamo un piccolo gruppo, ma orgogliosi di essere arabi, giordani e cristiani. La nostra fede è antica, siamo benvoluti e rispettati». L’ospitalità qui è un valore importante: e la presenza del Papa da sola vale più di mille parole. Ce lo conferma l’autista del pullman, musulmano, che ci riporta in albergo dopo la Messa: «L’ospitalità per noi musulmani è un valore sacro. E il Papa adesso è nostro amico, perché è stato ospite del nostro Paese». La Chiesa cattolica, d’altra parte, è apprezzata anche per le sue tante iniziative di carità che il Papa stesso ha voluto ricordare più volte: scuole, ospedali, centri di cura. Tra queste la casa Regina Pacis, che Benedetto XVI ha visitato nel suo primo giorno in Giordania. Tra le Comboniane che gestiscono la casa c’è suor Adriana, missionaria italiana, in Giordania dal 2001. «Per noi è un grande regalo» dice commossa. La struttura, creata dal Patriarcato Latino di Gerusalemme, è la casa madre di una realtà che comprende una trentina di altri centri in tutto il Paese, attivi nell’accoglienza di disabili. «Senza fare distinzioni tra cristiani e musulmani», sottolinea.

Ma il momento che più di tutti ha messo in evidenza questa crescente amicizia tra la Chiesa Cattolica e l’Islam moderato è stata  la visita alla moschea di al-Hussein. Per i giornalisti, in sala stampa, l’attenzione è stata rivolta soprattutto al fatto che il Papa, entrando, non si è tolto le scarpe (i suoi ormai caratteristici mocassini rossi). Il portavoce della Santa Sede, padre Raffaele Lombardi, ha dovuto spiegare che il Santo Padre è stato accompagnato su una stuoia che era stata posta per l’occasione sopra i sacri tappeti della moschea. Nessuna mancanza di rispetto verso un’antica usanza islamica, quindi, ma un gesto di accoglienza dei capi religiosi musulmani nei suoi confronti. Anche noi che seguiamo il Papa, d’altra parte, abbiamo goduto dello stesso privilegio.

In realtà, la terza volta di un Papa in un tempio musulmano (dopo la visita di Giovanni Paolo II a Damasco nel 2001 e quella dello stesso Benedetto XVI a Istanbul) è stata importante non solo per la visita fatta all’interno quanto per le parole pronunciate fuori. Benedetto XVI ha messo in guardia contro i rischi di una «manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici» e, soprattutto, ha richiamato un tema a lui caro: «la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana». È questo secondo il Papa «il compito che cristiani e musulmani possono assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società».

Ad ascoltare il Papa, davanti a questa moderna ed imponente moschea in granito bianco costruita su una collina che domina Amman, era presente una platea ristretta ma estremamente qualificata: capi musulmani ma anche vescovi e patriarchi cattolici e ortodossi, consoli e ambasciatori, rettori delle università. Un insieme di colori, di abiti, di volti che fa respirare l’importanza di questo incontro tra cristianesimo e islam. A salutare il Papa è stato il principe Ghazi, cugino del Re e suo consigliere per le questioni religiose. Il giovane principe, affascinante con la sua curatissima barba nera e la sua kefia rossa, è tra i principali firmatari della «Lettera dei 138»  inviata al Papa nel 2007 in cui si parlava dell’amore per Dio e per il prossimo come terreno comune di incontro tra cristianesimo e Islam. È importante quindi che da lui, una delle autorità religiose più importanti del suo Paese e di tutto il Medio Oriente, siano venute parole di accoglienza, di affetto e di stima verso il Papa e verso i cristiani che abitano queste terre. Ed è stato lui a far riferimento all’«incomprensione» sorta dopo il discorso fatto dal Papa nel 2006 a Ratisbona, quando l’errata interpretazione di una citazione suscitò un forte risentimento nel mondo islamico. «Abbiamo apprezzato – dice il principe, come  a voler chiudere una volta per tutte quell’episodio – le chiarificazioni date dal Vaticano».

Non sono mancati, in questi giorni in Giordania, i riferimenti alle tante le questioni aperte. Come quella dei cristiani in Iraq, che il Papa ha toccato salutando il patriarca di Baghdad. Eppure, nonostante questi motivi di tensione, questi giorni del Papa in Giordania indicano una strada da seguire. «Coexistence is possibile»: la convivenza è possibile recitano i cartelloni apposti in tutta la città, e che esprimono il messaggio che la Giordania vuole dare al mondo. «La grande speranza dei giordani – ci dice un signore nell’ascensore dell’albergo, mentre sale per partecipare a una festa di nozze  – è che l’Occidente veda il volto vero dell’Islam, quello che vuole la pace proprio come la vogliono i cristiani».