Vita Chiesa

Papa Francesco: dieci anni fa una sorpresa, oggi una certezza

Così a Firenze, in Santa Maria del Fiore, quinto Convegno della chiesa italiana, ricorda una frase del parroco di Brescello che di sé diceva: «sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». La citazione indica una prospettiva chiara, ovvero «per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso e lieto» la chiave, per Francesco, è proprio nella «vicinanza alla gente e preghiera». Insieme all’idea di una chiesa «inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti», una chiesa «lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza».

La chiesa che Francesco preferisce, aveva scritto solo due anni prima nell’esortazione «Evangelii gaudium», è quella «accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti». È l’immagine di una chiesa in uscita che Bergoglio aveva già manifestato parlando ai cardinali riuniti nelle Congregazioni generali precedenti il Conclave del 2013; una chiesa chiamata a uscire da se stessa e un Cristo che «bussa da dentro perché lo lasciamo uscire».A dieci anni dalla sua elezione la novità Francesco – il primo Papa dell’America Latina, gesuita, il primo che prende il nome del poverello di Assisi – non è solo nelle parole, in quel pastore che deve avere l’odore delle pecore, ma soprattutto nei gesti, nei viaggi, nelle scelte che compie, rischiando, a volte, l’incomprensione. Un feeling corrisposto dalla gente, i fedeli. Alla mente torna un cartello in piazza San Pietro un mercoledì di udienza generale, dopo che i media avevano raccontato le telefonate del Papa a conoscenti o a persone in difficoltà; parole scritte in dialetto romanesco ma non bisognose di traduzione: «a Fra’ dacce er numero, te chiamamo noi». È la risposta più evidente a quel «cammino vescovo e popolo» che Francesco indica il giorno della sua elezione, il 13 marzo 2013.

Forse proprio quel nome – «più importante di un’enciclica», disse un cardinale – è messaggio e simbolo di un cambiamento, che in questi dieci anni di Pontificato abbiamo sperimentato. A partire proprio dal suo primo viaggio nell’isola di Lampedusa, quattro mesi dopo la sua elezione. Chi meglio di lui, vissuto in uno dei paesi che più vive la sofferenza dell’ingiusta distribuzione delle risorse, in un continente dalle forti diseguaglianze, sarebbe in grado di rendere visibile il messaggio di una chiesa accanto agli ultimi, alle vittime della «cultura dello scarto». Il viaggio a Lampedusa, primo lembo di Europa per chi percorre le acque del Mediterraneo per fuggire da guerre, fame, e violenze, ha segnato proprio un cambiamento di prospettiva: evangelicamente gli ultimi diventano i primi, e quelle donne e uomini appena salvati diventano le prime persone che Francesco saluta sulla banchina del porto. È un gesto che accompagnerà con quell’omelia in cui dice con forza il suo no alla globalizzazione dell’indifferenza, che ha fatto dimenticare la sofferenza dell’altro, che ha tolto la capacità di piangere. Qualche anno più tardi, di fronte a altre tragedie di migranti morti tra le onde, parlerà di un Mediterraneo cimitero liquido.

Parole simili, torneranno in tanti altri momenti, in quelle «periferie dell’esistenza» che Francesco visita: come l’isola di Lesbo, altro luogo dove ha incontrato volti, storie, sofferenze e speranze di altri migranti. Di altri poveri, come nella favela di Varginha, a Rio de Janeiro, dove ricorda che è necessario dare il pane a chi ha fame, «ma c’è una fame più profonda, la fame di una felicità che solo Dio può saziare. Fame di dignità»; e non si può costruire il futuro di una nazione, non si può promuovere il bene comune se non si tutelano la vita «che è dono di Dio, da promuovere sempre», e la famiglia «fondamento della convivenza e rimedio contro lo sfaldamento sociale».

Il Concilio lo vive da studente prima dell’ordinazione, ma lo interpreta nelle scelte e nei gesti che compie da prete, vescovo e da Papa. Abita in un piccolo appartamento e si prepara la cena da solo perché, dice, la mia gente è povera e io sono uno di loro. In queste parole da sacerdote, che percorre le strade delle favelas di Buenos Aires, c’è l’eco di quel Patto delle catacombe, la scelta della povertà, che alcuni cardiali e vescovi, soprattutto latinoamericani, firmano a Roma, terminato il Concilio. Ma c’è anche l’ansia missionaria, il continuo riferimento alla misericordia e il no a quella «mondanità spirituale», parole di Henri- Marie de Lubac, che è la negazione della chiesa dalle porte aperte.L’ecumenismo e il dialogo interreligioso lo vedono compiere gesti forti, come l’incontro con il patriarca di Mosca Kirill, il primo colloquio con il capo della chiesa ortodossa più numerosa, mai riuscito, sebbene cercato e voluto, da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il faccia a faccia, prima della tragedia della guerra in Ucraina e il conseguente gelo nei rapporti, avviene in una saletta dell’aeroporto della capitale cubana: «abbiamo parlato apertamente e senza mezze parole» dirà Francesco dopo la firma di una dichiarazione congiunta, nella quale si fa riferimento al cammino verso la piena unità tra le due chiese, e si auspica che l’incontro «possa essere segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà». O la tappa a Lund, Svezia, con la firma della Dichiarazione congiunta con la chiesa luterana in occasione dei cinquecento anni della Riforma.

Per Papa Bergoglio il dialogo con i musulmani è cruciale. Ha ereditato una situazione difficile, il conflitto in Iraq, le tensioni con l’Iran, la nascita del califfato e, per la chiesa, le difficoltà scaturite dal discorso di papa Benedetto a Ratisbona. Così visita una decina di paesi a maggioranza musulmana, ma, soprattutto, individua due interlocutori privilegiati: il grande imam di Al Azhar, il sunnita Ahmad Al Tayyeb, e la massima autorità sciita, l’ayatollah Al Sistani. Infine, l’incontro interreligioso in Iraq, Piana di Ur, marzo 2021, e la richiesta a tutti i leader religiosi di prendere le distanze dai fondamentalismi e dal terrorismo: Dio è misericordioso e «l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello». Di due anni prima è la firma, a Abu Dhabi, del Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, noto come la Dichiarazione di Abu Dhabi, siglato proprio con l’imam di Al Azhar.

Il grido di Paolo VI «mai più la guerra» lo ripete all’Onu, ma anche nei viaggi. Francesco torna a Sarajevo, come due dei suoi predecessori, visita altri luoghi feriti dalla guerra e dalle violenze, come la Repubblica Centroafricana, è qui che apre nella cattedrale di Bangui, una settimana prima che a San Pietro, la Porta Santa dell’Anno della misericordia.L’invasione russa dell’Ucraina vedrà il Papa chiedere con forza la fine della guerra, «conflitto blasfemo» lo chiama, e non passa giorno senza un appello, una preghiera.Sognare e pensare un’altra umanità è possibile, scrive Francesco nella terza enciclica, Fratelli tutti, nella quale scrive che la vera via della pace non è «la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne». La pace passa anche attraverso un modo nuovo di vivere la casa comune, eliminando diseguaglianze e ingiustizie, come scrive nella «Laudato si’». C’è bisogno di una ecologia umana, di contrastare la cultura dello scarto che genera guerre e migrazioni: per il Papa «se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi».Fabio Zavattaro