Vita Chiesa

Prediche: come difendersi dagli sbadigli

«Da che pulpito… Come difendersi dalle prediche» è il titolo dell’ultimo libro di Roberto Beretta pubblicato dalle Edizioni Piemme (pagine 192, euro 12,50). Beretta, 46 anni, giornalista (si occupa di cultura per il quotidiano «Avvenire»), afferma di sorbire in silenzio le omelie regolamentari in una chiesa della Brianza fino dall’età della ragione. E proprio per questo motivo ha al proposito qualcosa da ridire dal suo pulpito di carta. «Se non possiamo illuderci di migliorare le prediche – scrive Beretta – almeno impariamo a difendercene, a smascherarne i trucchetti e gli errori, a limitarne i danni al nostro cervello e alla nostra fede grazie a un poco d’ironia. Chissà, può darsi che – una domenica o l’altra – possiamo incappare in un prete che abbia letto questo volume e ne abbia tratto qualche conseguenza; magari quella di star zitto».La prefazione al libro, che pubblichiamo, è di Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio. di Andrea RiccardiIl libro di Roberto Beretta è pungente e problematico. Non si tratta solo dello stile dell’Autore, ma della sua capacità di cogliere un problema di tanti cristiani del nostro paese: la predica domenicale. I predicatori e i cristiani, potranno leggere i tanti problemi e le diverse reazioni dei fedeli di fronte all’esperienza che un grande credente e un fine letterato, Carlo Bo, definiva, qualche anno fa, come il «supplizio della predica». Potrà sembrare un’espressione troppo forte a tanti predicatori che si preparano o mettono impegno nel loro servizio alla Parola di Dio; ma la realtà di quelli che ascoltano è spesso un’esperienza di scarso rilievo, difficile, talvolta sconsolante. Non è solo la fatica di un pugno di minuti passati ad ascoltare un discorso che, talvolta, tiene poco conto della Parola di Dio proclamata nella liturgia; ma è anche il sincero dispiacere per un’occasione perduta per sé, per altri, per i saltuari frequentatori delle nostre chiese. Dispiace veramente vedere quando, a metà predica, la gente si alza. Non lo fa per protesta, ma per poco interesse.Sorge forte la tentazione (e Beretta ci cade in pieno, ma è il suo mestiere di autore su questi temi…) di non rispettare quel che Gesù chiede: «Non giudicate, per non essere giudicati» (Matteo 7,1). Non si può fare a meno di giudicare quello che si ascolta. A volte personalità dalla spiritualità più profonda, meno «giudiconi», praticano quello che dice l’apostolo Paolo: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Tessalonicesi 5,20).

Il risultato non è migliore: che cosa resta? Si finisce con il ritrovarsi in mano di buono, a volte, poco, dopo aver ascoltato una predica.

Le pagine di questo libro possono farci sorridere. Molti di noi, nell’una o nell’altra chiesa del nostro paese, hanno pensato quanto Beretta scrive rispetto al «parlare» durante la liturgia. Si comincia con le letture fatte da chi non sa leggere, all’uso dei foglietti che sostituiscono l’ascolto, si finisce ai microfoni che non funzionano, al protagonismo dei preti che scambiano l’altare per l’apparizione in una trasmissione televisiva, ai discorsi che corrono peregrini tra le tirate moralistiche e il commento dei fatti del giorno, ai sermoni di dotta esegesi o invece ai ragionamenti di chi si arrampica in connessioni dubbie per ridurre le tre letture domenicali a un messaggio… I problemi ci sono. Sono quelli di una liturgia e di una sua «presidenza» che si sono troppo modellate sul gusto dell’evento spettacolare o sullo stile di gestire una platea televisiva. La predica è uno dei punti più deboli di questa concezione della liturgia, che tanto indulge al protagonismo ecclesiastico e alla riduzione del popolo di Dio a spettatori (anche se poi gli si concede qualche partecipazione, magari estemporanea).

I problemi ci sono. Beretta fa bene a descriverli, anzi a darcene delle istantanee. Dice in buona parte quello che pensano i frequentatori delle nostre chiese, fatte salve lodevoli eccezioni di buoni predicatori (o forse tante: chi può quantificarle?). Il disagio esiste e soprattutto si spreca l’occasione di mettere a contatto un uditorio (che è fatto anche di cattolici estemporanei) con la Parola di Dio. Questo è grave. Scrive Beretta: «100.000 prediche ogni domenica in Italia (calcolando una media di quattro messe in ciascuna delle 25.000 parrocchie dello Stivale) sono un’occasione troppo importante, unica, per mancare il colpo presentandosi all’appuntamento con le polveri bagnate».Giustamente l’Autore non suggerisce una risposta. Non è suo compito. Né si deve indulgere a un prontuario omiletico o a soluzioni meccaniche. Ogni predicatore ha la sua storia, la sua sensibilità, le sue capacità, mentre conosce la sua comunità. La Parola di Dio va accolta da lui personalmente e comunicata a chi lo ascolta. C’è anche – nota Beretta – chi non ha il dono di parlare. Ma c’è rimedio a questa difficoltà, almeno in larga parte: si tratta della preparazione. L’Autore lamenta anche il fatto che nella formazione dei sacerdoti si dia scarso spazio allo studio della «retorica sacra». Ma il problema non è solo nella formazione, ma anche nella vita quotidiana.

Tutti si debbono preparare. La preparazione è prima di tutto prendere sul serio la Parola di Dio: parte dall’ascolto personale e dalla meditazione della Bibbia. Enzo Bianchi, in un testo dedicato ai presbiteri, ha scritto: «Oggi voi avete chiara questa coscienza di essere «ministri della Parola», ma per essere tali occorre essere ascoltatori assidui della Parola, curvati dalla Parola, abitati dalla Parola». Infatti ogni predicatore, ogni pastore, resta fino alla fine dei suoi giorni un discepolo. Se il discepolo si inaridisce, allora anche il predicatore non comunica.

Così il servizio della predicazione richiama a prendere ancora più sul serio la dimensione del discepolo, che è propria di ogni cristiano. È quanto sta alla base di un’autentica preparazione della predica. Giovanni Crisostomo, grande predicatore ad Antiochia e a Costantinopoli, diceva ai suoi confratelli: «Bisogna aver molta cura perché la parola di Cristo abiti in noi abbondantemente». Comunicatori della Parola di Dio non si nasce, ma si diventa nella meditazione, nella preghiera, nella vita e nella fatica della preparazione.

Prepararsi vuol dire dedicare tempo alla Scrittura che sarà proclamata nella liturgia. Significa scrivere un testo o prepararselo a memoria, avendo presente la comunità che si avrà di fronte. Questo richiede tempo. Più si hanno difficoltà a parlare, più i fedeli sono disomogenei, e più bisogna prepararsi prima. Per parlare pochi minuti e riuscire a sviluppare alcune idee, bisogna lavorarci bene, altrimenti si vaga da un discorso all’altro e si perde tempo. Lo sanno quanti sono abituati a parlare in pubblico: se si vuole improvvisare, bisogna avere tempo disponibile, più di dieci o quindici minuti. D’altra parte in un quarto d’ora si riescono a dire parecchie cose; si riesce a comunicare molto, soprattutto in un contesto motivato come la liturgia. Non è una responsabilità scialare questo tempo?Del resto la liturgia stessa introduce al senso di responsabilità di chi proclama il Vangelo. Lo fa in una preghiera silenziosa riservata al sacerdote: «Purifica il mio cuore e le mie labbra, Dio onnipotente, perché possa annunciare degnamente il tuo Vangelo». Il vescovo o il sacerdote chiede qualcosa di analogo, quando benedice il diacono che sta per annunciare il Vangelo. Le parole della liturgia mostrano come per comunicare il Vangelo «degnamente» bisogna lasciarsi purificare le labbra e il cuore. Non è cosa da poco. La liturgia non è lo spazio per protagonismi clericali o per esibizioni degli uni o degli altri. La predica fa parte della struttura fondamentale della liturgia che è parola e risposta. Ha scritto il card. Ratzinger: «Tra le acquisizioni importanti del rinnovamento liturgico vi è il fatto che il popolo torna a rispondere direttamente nell’acclamazione…». Ma aggiunge lo stesso cardinale: «Spesso, poi, è la predica stessa a lasciare più domande o contraddizioni che spazio per l’incontro con il Signore. Essa dovrebbe generalmente chiudersi con un’esortazione alla preghiera…». Spiegare le Scritture non è cosa da poco, uno fra i tanti impegni settimanali del prete; ma dev’essere centrale nel suo ministero. E, alle cose importanti, occorre prepararsi con il cuore e la fatica.Beretta non chiede prediche dotte e accademiche. Vuole che si prenda sul serio il Vangelo e lo si comunichi. Un grande erudito, don Giuseppe De Luca, fine editore di testi rari, ha dedicato tanta attenzione alla predicazione. Ha pure pubblicato alcune sue meditazioni per favorire la preparazione della predica. Ma notava come la preparazione, pur così necessaria, non basti: «Amiamo e parleremo», diceva. Insomma occorre cuore. De Luca aggiungeva: «Io vi esorto, o preti, a un poco di commozione quando predicate. Che cosa è che fa la profonda dolcezza, la potenza senza pari di una predica? Ma è la commozione!». E la commozione – mi permetto di dire – è la partecipazione a quel sentimento profondo di Gesù di fronte alle folle, stanche e malate, come pecore senza pastore. A esse, pur nel ristretto quadro di un’assemblea domenicale, il predicatore propone di non volgere lo sguardo a lui, ma a Colui che lui stesso ha la gioiosa responsabilità di indicare. Chi partecipa ad una liturgia eucaristica, trova Gesù, il pastore della propria vita, perché ascolta le sue parole.

San Francesco di Sales, che tra la fine del Cinquecento e il Seicento è all’origine di un avvicinamento tra la Chiesa e la sensibilità della gente del suo tempo in chiave tutta pastorale, scriveva saggiamente: «Bisogna non solo insegnare la verità ma anche commuovere; dar luce alla mente e anche calore al cuore. Per questo Dio mandò sui suoi apostoli le lingue di fuoco. Essi dovevano parlare con la lingua ma anche infiammare i cuori».

E troppo difficile farlo di fronte ad un’assemblea eterogenea e nel breve volgere di qualche minuto? Non lo credo. I cristiani, raccolti la domenica, hanno una domanda di fede nel loro cuore. D’altra parte la comunicazione della fede avviene di cuore in cuore e si fa con le parole. Le parole – specie quelle della predicazione– sono importanti. Tante testimonianze ci dicono come un’esistenza può cambiare per una parola ascoltata. Ma quella parola bisogna dirla! Così l’Autore colloca nel suo libro una richiesta semplice e fondamentale, che si deve sottolineare: «In predica parlateci del Vangelo, please».

Spero che questo libro, scritto sorridendo e un poco soffrendo, faccia riflettere un po’ di più chi predica. Non si vuole sostituire alla responsabilità e al cuore degli uomini con la proposta di un metodo. Non si vuole sottovalutare la fatica di chi deve prendere la parola nella liturgia. L’ho letto come una riflessione amichevole. C’è anche la questione di come si ascolta la Parola di Dio e la predicazione, e di come vengono accolte da parte delle comunità; ma questo sarebbe il tema di un altro libro, questa volta, sui cristiani, in particolare i laici e su una fede che viene dall’ascolto. È certo che la predicazione è un problema di cui si dovrebbe parlare di più nelle assemblee del clero e dei vescovi. Sono, da parte mia, convinto che se nelle nostre chiese si celebrasse e si predicasse più degnamente, la nostra Chiesa avrebbe un grande nutrimento. Invece alla fine ci si preoccupa di tante cose, ma si rischia di trascurare l’unica necessaria.Non vorrei però che questo libro fosse preso solo come un atto d’accusa verso i predicatori. Con simpatia, l’Autore mette in luce la sete della Parola da parte del popolo di Dio. Ma le responsabilità non stanno solo da una parte. Forse, anche nel popolo di Dio, bisogna far crescere la dimensione dell’ascolto e ricordarsi che siamo tutti discepoli. Questa è la vera dimensione del cristiano: è stato chiamato cristiano ad Antiochia, ma è nato ben prima come discepolo sulle rive del mar di Gallica. C’è infatti bisogno di ascoltare di più e non solo di predicare meglio. Insomma c’è bisogno di prendere sul serio il Vangelo. Sant’Agostino, grande predicatore, chiedeva: «Vi sembra che sia più sacro il Corpo di Cristo o la Parola di Dio?». E rispondeva: «La Parola di Dio non è da meno del Corpo di Cristo. Non sarà meno colpevole chi avrà ascoltato con negligenza la Parola di colui che, per propria negligenza, avrà lasciato cadere in terra il Corpo di Cristo». Grave responsabilità per chi ascolta e per chi parla.

Questo libro di Beretta, talvolta ironizzando, ci richiama a esigenze fondamentali della vita cristiana: comunicare il Vangelo e ascoltare la parola di Dio. Infatti la fede dipende dalla predicazione. Su questo non si scherza. Lo dice l’apostolo Paolo ai Romani: «La Fede dipende dalla predicazione e la predicazione dalla Parola di Dio« (10,17). A questo punto conviene parlare con la sapienza della fede e ascoltare con umiltà.

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