Opinioni & Commenti

Abbattuto un muro ne abbiamo costruiti un’infinità di altri

Quest’anno si dovrebbe celebrare il trentennale della caduta del muro di Berlino. Quel bastione di cemento fu considerato per trent’anni dal mondo occidentale come un monumento alla barbarie e il simbolo vivente della tirannia. Finché è rimasto in piedi lo sbarramento fra chi stava ad Est e chi stava ad Ovest di Berlino suscitava collera e indignazione solo a citarlo. L’emozione che provocava a chi lo vedeva era incontenibile. Il 23 giugno 1963 il presidente Kennedy di fronte a quella barriera e ad una folla enorme di berlinesi occidentali pronunciò il suo discorso più violentemente anticomunista che si ricordi: «Ci sono alcuni che dicono che il comunismo rappresenta il futuro. Vengano a Berlino». Poi, come raccontò il suo collaboratore Arthur Schlesinger, ebbe paura delle sue stesse parole e della rabbia di quella folla e disse che se avesse aggiunto «Andate fino al muro ed abbattetelo» quella folla inferocita l’avrebbe fatto.

D’altra parte l’anticomunismo e la guerra fredda in Europa nascono con l’immagine solenne e pomposa di un grande muro invisibile, ma reale creata dal famoso discorso di Churchill a Fulton nel marzo 1946: «Da Stettino nel Baltico a Trieste sull’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono le capitali dei vecchi stati dell’Europa centrale e orientale». Oggi in America il successore di quel Reagan, che trenta anni fa diceva «Signor Gorbaciov abbatta quel muro», ha in mente di costruire un muro di tremila chilometri tra gli Usa e il Messico dove già per un tratto, fra Tijuana e San Diego, si distende una cortina di lamiera con i suoi accessori elettronici sofisticati come si addice ad un paese con alta tecnologia.

Paradossalmente la caduta del muro di Berlino nel 1989 ha dato inizio all’epoca della costruzione dei muri un po’ dovunque. Secondo lo studio della studiosa canadese Elisabeth Vallet (Borders, Fences and Walls, Routledge 2014) ci sarebbero oggi nel mondo fra i 70 e i 75 «muri» che chiudono circa 40 mila chilometri di frontiere su un totale di 250 mila chilometri di confini fra gli stati. Messi in fila tutti questi muri potrebbero fasciare la terra come il nastro di un uovo di Pasqua. Alcuni fra i più antichi sono muri che, come quello di Berlino, tagliano ancora una città come una mela. Il muro di Belfast in Irlanda separa la parte protestante dalla parte cattolica con cancellate, strade sbarrate, reti metalliche e muri sopraelevati coperti di graffiti ora carichi di odio, ora di speranza. La barriera di muro e cemento che attraversa la città di Nicosia a Cipro, in teoria isola di Afrodite e quindi dell’amore, divide dal 1974 la parte della città considerata turca dalla parte della città considerata greca. Poco prima del 1989 è stato costruito anche un «muro» di cui ben poco si parla anche se è una delle barriere più lunghe del mondo. Si tratta di una architettura in stile africano che divide il Marocco dal popolo Saharawi con due argini di sabbia che corrono paralleli per 2.720 chilometri fra loro con un fossato nel mezzo, rafforzati da bunker e reticolati e con un campo minato a lato con 10 milioni di mine che hanno già fatto migliaia di vittime, per lo più pastori Saharawi che inseguono le loro bestie.

Poi sono arrivati i muri come epilogo e surrogato delle guerre che non portano a nessuna pace, come trincee temporaneamente spente, ma da cui ci si guarda ancora in cagnesco. Sono muri che dividono non solo territori, ma popoli; quasi sempre vogliono essere anche una transenna fra una religione e un’altra cercando di rendere il vicino non solo infrequentabile, ma anche invisibile. Nel 1991 fu iniziata la costruzione dei duecento chilometri di muro fra Kuwait e Iraq dopo la cosiddetta guerra del Golfo. A partire dal 2002 Israele inizia la costruzione di 730 chilometri di un muro di lastre di cemento, reticolati e barriere elettroniche fra Gerusalemme e la Cisgiordania che divide ebrei e palestinesi. Nel 2003 l’Arabia Saudita sunnita costruisce un muro per difendersi dagli sciiti dello Yemen. Dal 2005 l’India comincia costruire al confine con il Cachemire un muro di ferro e acciaio di quattromila chilometri che dovrebbe dividere indiani da musulmani. Nel 2006 la Thailandia buddista costruisce un muro per tenere distanti i musulmani della Malesia. Nel 2008 i soldati americani a Bagdad mettono l’uno accanto all’altro i tanti blocchi di cemento che dovrebbero separare dentro la capitale irachena gli abitanti di religione sunnita dagli abitanti di religione sciita.

Ma la maggior parte dei muri più recenti e più numerosi sono muri costruiti contro un presunto nemico disarmato, cioè contro i migranti. In quest’opera perfino gli stati più democratici dell’Europa Occidentale si sono dati da fare. Alla fine del secolo scorso è stata costruita, addirittura con i soldi dell’Unione Europea per mezzo di Frontex, una rete metallica alta tre metri e lunga dieci chilometri che separa il Marocco dalla enclave spagnola di Ceuta e Melilla per sigillare l’accesso più facile all’Europa attraverso lo stretto di Gibilterra. Nel 2016 la Francia, con quasi due milioni di sterline ottenute dal governo inglese, ha costruito a Calais un muro abbellito perfino con alberi e piante ornamentali per impedire agli irregolari di passare la Manica. Perfino la Cina nel 2003 dimentica l’internazionalismo comunista e decide di costruire un muro al suo confine per impedire ai nordcoreani impoveriti dalla crisi economica e politica di fuggire da un paese comunista ad un altro.

Ma è soprattutto l’Europa centromeridionale, quella che nelle prima metà del secolo scorso nutrì i più esasperati nazionalismi, a rappresentare oggi la maggiore impresa edilizia impegnata a costruire muri. Al confine con la Turchia la Grecia ha creato il suo fossato e la Bulgaria la sua rete di filo spinato. L’Ungheria ha deciso la costruzione di un muro alto quattro metri al confine con Croazia, Serbia e Slovenia. La Macedonia costruisce 33 chilometri di barriera al confine con la Grecia. Nel 2015 inizia la costruzione di una barriera fra Croazia e Slovenia. Anche la Lettonia e la Norvegia costruiscono il loro bravo muro ai confini con la Russia. Perfino la civile e mansueta Austria nel 2015 costruisce il suo piccolo muro di tre chilometri al confine con la Slovenia.

«Non muri, ma ponti» ripete continuamente papa Francesco.«No more wars no more walls» (Non più guerre e non più muri) era l’invocazione di un grande graffito dipinto su ciò che restava del muro di Berlino abbattuto.

Quando, e se, commemoreremo la caduta del muro di Berlino bisognerà pur dire anche qualcosa degli oltre cinquanta muri che sono stati costruiti dopo. Il Mediterraneo dimostra che, fra l’altro, chiudendo le vie di terra, si spingono i migranti a gettarsi in mare. I muri si costruiscono solo dopo avere costruito le nostre paure. E creano barriere ancora più forti di quelle materiali esasperando soprattutto identità e differenze. In fondo alla fine né il vallo di Adriano né la grande muraglia cinese salvarono dalle invasioni. Ma diedero soprattutto la presunzione di chiamare civile chi stava al di qua e barbaro chi stava al di là.