Cultura & Società

Agazzi: Tra fede e scienza una frattura assurda

di Sara D’Oriano

Figura carismatica ed affascinante, protagonista di apprezzati capolavori come “Tutti pazzi per Agazzi”, “Il Signore degli Agazzi”, “Biancaneve e i sette Agazzi”, “Il Codice Agazzi”, ecc.». Vero o no, è il curioso, ironico, ritratto che di Evandro Agazzi (nella foto) si trova sulla sua pagina personale di Facebook (ma potrebbe anche non essere stato lui a scriverlo).

Classe 1934, un curriculum lunghissimo tra cui spiccano la sua duplice formazione accademica, in filosofia e fisica, toccando Oxford e Muenster e i suoi lunghi anni di insegnamento sia in facoltà scientifiche (come la Scuola Normale Superiore di Pisa) che in facoltà di Lettere, ha insegnato all’Università Cattolica di Milano, Evandro Agazzi è oggi presidente dell’Accademia Internazionale di Filosofia della scienza ed è riconosciuto come uno dei massimi esponenti del mondo filosofico contemporaneo. O meglio, il Filosofo della scienza.

A Firenze in occasione del convegno internazionale su «Evoluzionismo e Religione» che si è tenuto all’Istituto Stensen da 19 al 21 novembre scorsi per celebrare i 200 anni dalla nascita di Charles Darwin, ha risposto così alle nostre domande.

Prof. Agazzi, colpisce molto la sua duplice formazione in ambiti in genere considerati molto diversi, se non opposti. Da che nasce questo suo interesse? E lei si considera più filosofo o più scienziato?

«Il mio interesse primordiale è stato da sempre la filosofia, intesa come sforzo per comprendere il nostro tempo, il senso della nostra vita. E la nostra attualità è pervasa dalla scienza. Come si può allora non soffermarsi a conoscerla? Ho ritenuto di fondamentale importanza, per proseguire nella mia “vocazione”, andare a conoscere la modalità di approccio al mondo moderno, attraverso i miei studi scientifici. Quello che apparentemente sembra appartenente a due mondi inconciliabili trova una sua logica e tutto il mio percorso segue il desiderio di approfondire il senso della nostra realtà attuale».

In uno dei suoi ultimi libri, «Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno» (Fondazione Boroli, 2009, pag 405), sottolinea il valore culturale della nostra tradizione scientifica. Crede che la scienza sia troppo sottovalutata oggi? Che sia relegata a mera tecnicità rispetto al valore attribuito alle cultura umanistica?

«Vede, c’è sempre stata una dicotomia oscillante tra la filosofia e la scienza. Il problema è essenzialmente pedagogico. Fin da piccoli, infatti, ci educano a vedere come due ambiti separati la scienza e la filosofia. Nelle aule accademiche, la filosofia viene insegnata all’interno della Facoltà di lettere. Il suo humus, cioè, è puramente umanistico e a contatto con la storia. Lo stesso avviene per le facoltà scientifiche. Non si sottolinea cioè che un ingrediente altrettanto fondamentale per la filosofia è la scienza e viceversa. Esiste un legame molto stretto tra queste due formazioni che però ci si ostina a tenere separato. Nella mia attività di direttore di “Nuova Secondaria”, un mensile di orientamenti educativi per la scuola secondaria superiore, cerco appunto di promuovere un avvicinamento delle scienze alle materie umanistiche nell’insegnamento soprattutto tra i professori e piano piano qualche risultato lo si ottiene, ma la strada è ancora lunga».

Un’altra dicotomia imperante è quella tra la religione e la scienza, entrando anche nell’ambito della bioetica. Lei come si pone di fronte a questo aspetto?

«È il medesimo problema. La scienza constata, dice cioè le cose come stanno, ponendosi con un atteggiamento empirico di fronte alla realtà, basando le sue risposte sulla percezione. Ma non ha alcun potere sul campo dell’ultra sensibile, che è invece ambito della religione. Purtroppo porsi in atteggiamento dicotomico nei confronti di queste due discipline è molto rischioso. Si rischia cioè di assumere atteggiamenti molto spinti e deterministici, nell’uno come nell’altro caso. Ed è ciò che ultimamente mi sembra stia accadendo. La sintesi tra queste due realtà rientra nella sfera della responsabilità personale, trovare cioè un punto di equilibrio tra la realtà scientifica e il proprio limite “operativo”, di cui fa parte anche la bioetica. Le conclusioni spettano però alla singola persona, ma solo dopo aver considerato entrambi questi due mondi».

E cosa pensa della ricerca? Secondo lei c’è libertà di ricerca oggi in Italia?

«Il discorso è molto ampio è bisognerebbe approfondirlo. Riassumerlo in poche battute è limitativo. I problemi dell’Italia si conoscono e sono ben noti. La cosidetta “fuga dei cervelli” c’è, ma bisogna comunque stare attenti. Nella mia esperienza, anche internazionale, all’interno di altre accademie universitarie e nel confronto con i miei colleghi stranieri, non vedo delle grosse prospettive nemmeno all’estero. Si fa presto a parlare delle problematiche, che pure ci sono, qui in Italia. Bisognerebbe però soffermarci anche sui problemi che ci sono all’estero e che a mio avviso non sono pochi. La fortuna di questo o di quello studioso non deve distogliere dalla realtà, che è quella di una difficoltà comune mi sembra, ovunque».