Toscana

Artemio Franchi: il cardinale Betori celebra la Messa in Santa Croce a 100 anni dalla nascita

La figura di Artemio Franchi, uno dei dirigenti più cari al mondo dello sport e soprattutto del calcio, morto in un incidente stradale a soli 61 anni nell’agosto 1983, è stata ricordata stamani anche nella basilica di Santa Croce a Firenze dove l’arcivescovo, il cardinale Giuseppe Betori, ha celebrato la Messa nell’ambito delle giornate organizzate per ricordare i cento anni dalla sua nascita. Presenti i familiari e tanti rappresentanti del mondo del calcio

Di seguito l’omelia pronunciata dall’arcivescovo

Le letture bibliche che abbiamo ascoltate in questa V domenica di Quaresima orientano il nostro sguardo verso la festa ormai vicina della Pasqua del Signore, Pasqua di croce e di risurrezione, mistero di un amore che si fa dono di sé e per questo sconfigge la morte. La Pasqua di Gesù è anche l’orizzonte che permette di guardare con speranza nelle vicende della storia, negli ultimi tempi offuscata prima dal diffondersi di una pandemia che ha visto venir meno i più fragili, ma che ha anche risvegliato solidarietà e coesione sociale, e poi dalla tragedia di una guerra con cui si vorrebbe privare un popolo della libertà e dell’identità, ma anche in questo caso risvegliando sentimenti di vicinanza per chi non si lascia piegare dalla sopraffazione, sollecitudine per chi soffre, accoglienza per i profughi, auspici di pace. È sempre la Pasqua di Gesù a illuminare ancora le vicende delle singole persone e a collocarle nell’amore eterno di Dio, ed è quello di cui oggi vogliamo fare, nella memoria di una persona cara a noi e a tanti nel mondo dello sport e non solo, Artemio Franchi di cui ricordiamo i cento anni dalla nascita.

Cosa comporti questo sguardo pasquale sulle vicende umane lo indicano anzitutto le parole del profeta che, rivolgendosi agli ebrei esiliati in Babilonia, annuncia che Dio non li ha dimenticati. Quel Dio che aveva liberato il popolo dalla schiavitù dell’Egitto è ancora capace di riedificare il suo popolo nella libertà: «Ecco, io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Lo sguardo della fede è questa capacità di leggere la presenza di Dio, i segni del bene dentro le complesse vicende della vita. Sta in questa radice spirituale la forza che spinge oltre il ripiegamento sul presente, oltre la chiusura su ciò che si possiede, oltre il fermarsi sulle mete raggiunte. E qui scorgo anche un riflesso della personalità di Artemio Franchi, il suo coraggio nel disegnare il futuro, un’eredità che ci viene lasciata per essere coltivata con intelligenza, con passione, alimentandola a partire da profonde radici etiche e spirituali. Su questo orizzonte di superamento del presente per aprire a una novità di vita si pone Gesù nell’episodio narrato dalla pagina evangelica. Da una parte c’è un potere culturale-religioso, quello incarnato da alcuni scribi e farisei, che pensa il proprio ruolo in termini di giudizio e di condanna, secondo il costume dei moralisti di ogni epoca, e dall’altra c’è Gesù, il cui sguardo entra nel cuore di ciascuno più di ogni sapiente, perché egli non ha a cuore i precetti ma le persone, ed è quindi in grado di denunciare la fragilità di tutti e di scommettere sulla capacità di risorgere anche di una donna perduta, perché per lui nessuno è perduto e tutti stiamo nel cuore di Dio. Anche in questa prospettiva, di attenzione alle persone e di possibile redenzione da ogni marginalità, il mondo in cui viviamo viene radicalmente messo in questione dal comportamento di Gesù. Accogliere e dare opportunità è un atteggiamento oggi estremamente necessario per ridare vita a una società troppo ingessata, troppo frammentata, troppo vittima di incomunicabilità, troppo chiuse alle strade dei giovani, troppo segnata ideologicamente. E anche in questo l’esempio di cura delle relazioni che Artemio Franchi ha lasciato, ci esorta a uscire dalle nostre certezze e dalle nostre paure, per metterci in gioco nel rapporto con gli altri. 

Infine la vicenda umana di Artemio Franchi mostra come votare la propria vita a una grande causa la rende nobile, degna di essere vissuta, testimonianza di valori per gli altri. Sono caratteri che confliggono con la cultura diffusa che esalta piuttosto la mutevolezza delle scelte, il pluralismo delle esperienze, la provvisorietà delle convinzioni, la fuga dal confronto con la realtà, la fluidità dei caratteri e delle identità. A questo mondo senza verità, in cui vale tutto e il contrario di tutto, un mondo onnivoro, che a nulla vuole rinunciare e che tutto cerca di assimilare, appare estraneo un progetto di vita che si incentri su principi e finalità ben definite, alti traguardi per cui spendere la vita, e non una vita che si spreca ondeggiando senza un porto e la rotta per approdarvi. È questa anche la logica della fede, come ricorda l’apostolo Paolo, che si propone come esempio di chi, una volta scoperto il volto di Cristo, lascia ciò che fino a quel momento aveva considerato una sicurezza per sé: «Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,8). E questo con un impegno che non può dare nulla per scontato, ma richiede uno sforzo continuo, come quello che esige lo sport. Non a caso l’apostolo utilizza un’immagine sportiva, quella della mèta, per esprimere questa dimensione dinamica della vita: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù» (Fil 3,12). Un’affermazione, questa, che ci rassicura che il nostro impegno non è velleitario, perché ha un solido fondamento, una sicura radice, l’amore di Dio per noi. Su questo amore possiamo contare e questo amore chiede oggi il nostro impegno per una vita degna del Vangelo.