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Asia Bibi, una martire dei giorni nostri che assomiglia ai martiri di duemila anni fa

Nonostante che fossero musulmani e nonostante che fossero stati minacciati di una «fine orribile» il 31 ottobre scorso i giudici della Corte suprema del Pakistan hanno dimostrato molto coraggio. Nella sentenza che assolveva Asia Bibi dalla condanna a morte hanno scritto che in arabo Asia significa «peccatrice», ma anche che Asia Bibi «è più vittima di un peccato che peccatrice». E hanno aggiunto una frase che sembrerebbe storica per il Pakistan: «È blasfemia anche insultare la religione cristiana pur facendo il nome di Maometto».

Sembrava cosi finalmente finita la tragedia di una povera contadina, madre di cinque figli, rimasta per anni in una cella in cui allargando le braccia si potevano toccare le pareti, con un’ora d’aria razionata a tre volte al mese, terrorizzata da ogni cigolio di porta che ogni giorno  poteva significare l’ultimo giorno e distrutta da nove anni di angoscia come tutti coloro che sono passati attraverso il cosiddetto braccio della morte.

Ma la sentenza ha subito provocato la sollevazione e la rivolta degli estremisti musulmani che sono scesi in sciopero, hanno fatto chiudere scuole e università e hanno bloccato le strade. Sia ben chiaro: i manifestanti sono stati appena qualche migliaio. In ogni caso un’esigua minoranza dei musulmani del Pakistan. In pratica si tratta degli aderenti al partito fondamentalista Tehreek-e-Labbaik che alle ultime elezioni ha preso appena due milioni di voti fra i duecento milioni di pakistani. Ma è una minoranza capace di fare proseliti quando si tratta di uccidere per blasfemia. La stessa Asia Bibi lo ha detto: «Dieci milioni di musulmani sarebbero pronti ad uccidermi». E il terrorismo è stato già capace di colpire anche ai livelli più alti. Per aver difeso Asia il governatore del Punjab Salan Taseer è stato assassinato addirittura dalla sua guardia del corpo e il ministro per le minoranze Shabar Bhatti è stato freddato da un commando in pieno centro di Islamabad dopo essere andato a visitare Asia in carcere.

Il premier pakistano Imran Khan ha dapprima fatto la voce grossa contro i manifestanti: «Questi criminali non stanno servendo l’Islam». Ma poi, quando si è accorto che l’esercito, la vera potenza del paese, non aveva troppa voglia di reprimere anche una rivolta di pochi e di impegnarsi in quello che poteva essere l’inizio della solita guerra civile fra i sunniti accaniti contro Asia e la maggioranza sciita, è sceso a trattative per mettere fine ai tumulti e alla fine ha promesso agli estremisti che Asia rimarrà in carcere in attesa dell’esito di un ricorso alla Corte Suprema.

Sembra quindi paradossale ma, con tutta probabilità, questa donna dalla fede limpida e dura come un diamante, se sarà liberata, lo sarà alla fine attraverso qualche marchingegno opaco, un qualche ripiego sotterraneo scovato dalla politica, anziché attraverso la vittoria alla luce del sole dei diritti dell’uomo e di quella libertà religiosa che, ricordiamolo, è stata la madre di tutte le libertà.

La persecuzione della blasfemia in Pakistan è insieme drammatica e paradossale. Da quando il reato è stato introdotto nel codice penale trenta anni fa c’è stato un migliaio di condanne da parte dei tribunali contro cristiani e musulmani. Ma, a parte gli anni di carcere, non risulta che alla fine ci siano state delle esecuzioni. Al contrario secondo gli stessi dati citati nella sentenza della Corte Suprema ben sessantadue persone accusate di blasfemia sono state assassinate fuori dal carcere. È ormai evidente che, in questo Pakistan così fazioso e insieme così pauroso, la scappatoia politica per sfuggire a queste condanne è forse più facile di un verdetto netto di un tribunale  ed è anche chiaro che, per essere sicuri che Asia viva, bisogna ottenerne non solo la liberazione, ma anche la sua protezione all’estero.

Eppure, anche se la via del realismo o addirittura dell’opportunismo per salvare Asia sembra sempre più suggerire discrezione, meno clamore e un abbassamento dei toni intorno a lei, la figura di questa contadina che raccoglieva canna da zucchero a cento rupie (meno di un euro) al giorno appare sempre più non solo fuori dell’ordinario, ma anche fuori del suo tempo e della sua epoca come in fondo lo sono sempre stati i veri martiri. In un mondo in cui il titolo di martire è anche svalutato e ormai comunemente applicato anche a chi è solo vittima di un incidente e in un paese in cui persino i fanatici si sono impossessati di questo nome, la piccola grande Asia, che ha sempre rifiutato di convertirsi per sfuggire al carcere e alla forca, assomiglia ai martiri veri, verrebbe voglia di dire ruspanti, di un paio di millenni fa. Quelli, per intendersi, entrati nel calendario, cocciuti, un po’ dissennati in fondo anche agli occhi degli amici, ma autentici, tignosi nel dire no fino alla fine anche a prezzo della propria vita e disposti a farsi sbranare pur di non bruciare un chicco d’incenso a quelli che consideravano idoli.

Per questo, comunque e dovunque alla fine vada, oggi Asia è già qualcosa di più anche rispetto a chi gli vuole bene e pensa forse non a torto che farne un simbolo a dimensione internazionale significa farne un bersaglio anche per i suoi nemici e in fondo ostacolarne la liberazione. Ma in ogni caso di lei rimarrà questa testimonianza vera, personale, esistenziale, spirituale, che è tutt’altra cosa e ben altro fascicolo rispetto alle testimonianze, vere o false, per cui condannano e assolvono i tribunali degli uomini.