Firenze

Assunzione: Gambelli, rispettare donne, ascoltare la voce

L’omelia dell’arcivescovo di Firenze pronunciata durante la Messa nella cattedrale di Santa Maria del Fiore

Questa l’omelia di monsignor Gherardo Gambelli:

Celebriamo la Solennità dell’Assunzione di Maria e siamo invitati a contemplare la sua gloria come segno di sicura speranza e consolazione per il popolo pellegrino sulla terra. L’ascolto della Parola di Dio ci permette di accogliere il dono dello Spirito Santo che riempie i nostri cuori dell’amore di Dio e ci rende capaci di quello sguardo di fede, di cui abbiamo un particolare bisogno oggi per scorgere i segni di speranza nel nostro mondo. Il testo del Vangelo di stamani si situa all’interno dei cosiddetti racconti dell’infanzia, che ci presentano le annunciazioni e le nascite di Giovanni il Battista e di Gesù, intrecciate le une con le altre. Il testo della visitazione di Maria a Elisabetta si colloca al centro della sezione ed è redatto sullo sfondo del racconto anticotestamentario del trasporto dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme, al tempo del re Davide (2 Sam 6). Come sempre, quando ci accostiamo alla Scrittura, siamo invitati a leggerla identificandoci con i personaggi della storia. Elisabetta è il modello della pellegrina di speranza chiamata a compiere un itinerario riassumibile in tre tappe: il superamento della vergogna, il coraggio della profezia, la fedeltà alla scelta messianica.

Il tema della vergogna di Elisabetta si trova in un testo precedente a quello che abbiamo ascoltato, alla fine del racconto dell’annunciazione di Giovanni Battista. “Compiuti i giorni del suo servizio, Zaccaria tornò a casa. Dopo quei giorni, Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini” (Lc 1,23-25). È interessante osservare questo tempo prolungato di cinque mesi di nascondimento di Elisabetta. Ne sarebbero bastati tre per essere sicura e tranquilla della sua gravidanza. Come osserva acutamente una teologa contemporanea: «C’è ancora una vergogna in lei più sottile, più nascosta, più subdola: dopo una vita trascorsa a essere per tutti quella che “era detta sterile” (Lc 1,36), a essere guardata con commiserazione, ad avere un nome che sostanzialmente la qualificava come una donna inutile, inadatta alla vita, ora non ce la fa a sostenere un nome nuovo, una realtà nuova, sguardi diversi. […] Difficile credere in sé stessi, se non ci ha mai creduto nessuno. Quanto possono pesare sul cuore delle persone, sguardi, nomi, soprannomi, definizioni» (L. Verrani). Il saluto di Maria a Elisabetta è come un prolungamento di quello ricevuto a sua volta dall’angelo Gabriele e fa sì che si espanda il dono dello Spirito Santo. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo. È in questo momento che viene liberata dalla vergogna, perché un’altra donna la guarda in profondità, la abbraccia nello Spirito, riconosce la benedizione che è in lei, il suo nome più vero. Nella Veglia con i giovani a Tor Vergata Papa Leone ha parlato dell’amicizia: “L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada per la pace”. Poi ha citato una bellissima frase di Sant’Agostino: “Ama veramente il suo amico, colui che nel suo amico ama Dio”. Maria, oltre a essere parente di Elisabetta, diventa sua amica perché vede Dio in lei e la aiuta a confidare nella sua grazia, nella sua misericordia che ci libera dalla vergogna.

La seconda tappa del pellegrinaggio di Elisabetta è quella che la conduce al coraggio della profezia. Piena di Spirito Santo, riconosce Maria come madre del suo Signore ed esclama a gran voce: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Elisabetta riconosce che Maria è madre, perché prima di tutto si è fatta discepola di Gesù: “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Parlare di beatitudine del credente significa parlare di gioia che viene dal mettere Dio al primo posto, imparando a disobbedire alla logica mondana, alla paura della morte con la quale il demonio ci tiene tutti prigionieri (Eb 2,14-15). È bello ripensare a quel “no” che Elisabetta pronuncerà più tardi al momento della circoncisione di suo figlio, quando i vicini e i parenti vorrebbero imporgli il nome del padre Zaccaria: “No, si chiamerà Giovanni”. Nella festa della glorificazione del corpo di una donna, quello della Vergine Maria, siamo invitati ad approfondire la riflessione sull’importanza del rispetto del corpo, in particolare quello femminile, come tempio dello Spirito Santo. L’aumento del numero di aggressioni nei confronti delle donne che giungono in molti casi fino ad efferati omicidi, ci mostra quanto cammino sia ancora necessario percorrere per superare certe tendenze maschiliste della nostra società che riducono il corpo della donna a un oggetto di consumo e di piacere. Il ricorso a forme di pressione psicologica, in relazioni tossiche, segnate da un amore possessivo può essere superato solo da un sussulto generale di coscienza che faccia evolvere la società verso un autentico rispetto delle libere decisioni delle donne. Il raggiungimento di un effettivo riconoscimento dell’importanza del ruolo della donna nelle comunità cristiane passa attraverso un più attento ascolto della loro voce profetica, permettendo alla Chiesa di assumere uno stile mariano nell’attività evangelizzatrice, diventando così una casa per molti, una madre per tutti (cfr. Evangelii Gaudium, 288).

La terza tappa del pellegrinaggio di Elisabetta è quella della fedeltà alla scelta messianica che si manifesta come un frutto della sua partecipazione alla missione di suo figlio Giovanni nel rendere testimonianza al Cristo: “Ecco appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo”. È la gioia messianica quella di cui si parla qui, che avrà bisogno di essere ravvivata nella fedeltà da parte di Giovanni, come possiamo intuire a partire da quella domanda che rivolgerà a Gesù dal carcere, tramite i suoi inviati: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Lc 7,19). Gesù non corrisponde a quell’immagine del messia che Giovanni aveva in mente all’inizio della sua missione: “Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,9). Il Messia si fa l’ultimo e il servo di tutti e ci invita a collaborare con Lui alla sua opera di salvezza che si compie attraverso una rivoluzione della tenerezza. Una bella preghiera del Venerabile Tonino Bello ci ricorda che il cammino cristiano ha scale diverse da quelle del mondo: per salire bisogna scendere:

“Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita. Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che anche tu abbia un’ala soltanto. L’altra, la tieni nascosta: forse per farmi capire che anche tu non vuoi volare senza di me. Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo. Insegnami, allora, a librarmi con te. Perché vivere non è “trascinare la vita”, non è “strappare la vita”, non è “rosicchiare la vita”. Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del vento. Vivere è assaporare l’avventura della libertà. Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come te! Ma non basta saper volare con Te, Signore. Tu mi hai dato il compito di abbracciare anche il fratello e aiutarlo a volare. Ti chiedo perdono, perciò, per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi. Non farmi più passare indifferente vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine. E si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con te. Soprattutto per questo fratello sfortunato dammi, o Signore, un’ala di riserva”.