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Baturi (Cei), “questi giovani vogliono cambiare il mondo”

Intervista al segretario della Cei monsignor Giuseppe Baturi sul Consiglio dei giovani del Mediterraneo: «Ciò che accade in questo “parlamentino” è già un seme di pace. Sono rimasto colpito dalla loro determinazione di usare questo tempo come tempo di conoscenza, di crescita ma anche di cambiamento. Non sottovalutiamoli»

Monsignor Giuseppe Baturi a Fiesole per l'inaugurazione della nuova sede del Consiglio dei giovani del Mediterraneo nel Seminario vescovile

La scorsa settimana è stato a Fiesole per inaugurare la nuova sede del Consiglio dei giovani del Mediterrano. Pochi giorni prima aveva accompagnato alcuni di loro al Parlamento Europeo per far sentire la voce dei giovani alle istituzioni. Stiamo parlando di monsignor Giuseppe Baturi, segretario della Cei e arcivescovo di Cagliari. Tanti sono i drammi che convivono sulle rive del «Mare Nostrum». E l’Europa sembra talvolta distratta. «L’Europa – inizia la nostra intervista mons. Baturi – concentra tanti sforzi sul Mediterraneo ma non sono adeguati. Ci sono scarsi scambi economici ma anche culturali e di tipo accademico. Il problema è la fiducia che è il grande motore delle relazioni. E manca anche una visione strategica che a noi interessa porre all’attenzione di tutti: il Mediterraneo che costringe alla prossimità popoli, culture e religioni è, in questo momento, un luogo di frizione gravissima con ripercussioni in tutto il mondo. Però allo stesso modo può diventare un motivo di pacificazione di amicizia. L’Europa deve guardare di più al Sud che è un luogo strategico per l’umanità».

Monsignor Giuseppe Baturi, segretario della Cei e arcivescovo di Cagliari

Il Consiglio è formato da ragazzi che sono espressione delle Chiese del Mediterraneo. Il Vangelo può essere il primo comune denominatore per far dialogare le rive?

«Ne siamo convinti. I giovani del Consiglio hanno un programma triennale di lavoro. Sono liberi da condizionamenti, più capaci di creatività e di facilità di rapporti. Insieme a programmi di scambio e conoscenza, di amicizia politica e culturale, quello che emerge è il bisogno di spiritualità. I giovani hanno costituito un gruppo di studio proprio su questo perché avvertono che la convivenza e la dimensione globale a cui sono chiamati richiede un’anima, richiede la capacità di stare davanti al destino, di saper dialogare con le istanze più profonde dell’uomo e di raccordarle con la proposta di Dio. Questo non deve stupire perché questa fu una delle intuizioni profetiche della Dichiarazione sulla fraternità umana di Abu Dhabi. Lì si diceva chiaramente che per custodire la pace era necessario alimentare e promuovere nei giovani il senso religioso: la ricerca e l’affermazione pura di Dio è un antidoto contro gli estremismi, le intolleranze, gli integralismi. Quindi abbiamo bisogno non di meno religione ma di una religione più pura. E i giovani ci sottolineano questa necessità: l’idea di un uomo che è alla ricerca della verità e della vita piena non può non cercare Dio. Per noi cristiani tutto ciò ha un nome preciso, quello di Gesù Cristo, nel cui sacrificio sulla croce è stato abbattuto il muro di separazione e di inimicizia. La fede in Gesù Cristo ci aiuta a chiamare fratello ogni uomo».

Lei ha conosciuto i giovani del Consiglio a Firenze, li ha visti pochi giorni fa a Bruxelles, ha parlato con loro. Che cosa l’ha colpita?

«La loro voglia di partecipare. Sono consapevoli di avere un’occasione grande e di questo ringraziano la Chiesa italiana. A Bruxelles c’erano giovani che venivano da nazioni e continenti diversi: ciò che accade in questo “parlamentino” è già un seme di pace. Sono disposti a imparare qualcosa di nuovo mentre gli adulti, spesso, trasmettono preconcetti o visioni superate. Sono rimasto colpito dalla loro determinazione di usare questo tempo come tempo di conoscenza, di crescita ma anche di cambiamento. Vogliono cambiare il mondo e non limitarsi a lamentarne la malizia».

Cos’altro possono fare i vescovi del Mediterraneo per i giovani?

«Molto. Perché sia possibile un abbraccio la fede non deve mai essere limitata a un elemento identitario contro l’altro. L’educazione cristiana vera è sempre un’educazione all’amicizia, alla pace. Non ci dobbiamo mai rassegnare ad accettare la sofferenza e la guerra. Dobbiamo cambiare dall’interno. Tutto ciò non è per giovani eroi ma per tutti i cristiani. Ci sono poi delle realtà in cui il cristiano è a stretto contatto con persone di altre religioni e con la guerra: lì la Chiesa come madre amorosa deve essere capace di solidarietà e di stringere rapporti di dialogo. Il cristiano può introdurre nel mondo ciò che umanamente è impossibile: il perdono. Non è possibile la pace senza il perdono».

In momenti come questi, basti pensare al conflitto tra Hamas e Israele, tra Iran e Israele, tra Russia e Ucraina, all’instabilità nei Balcani, alle tante situazioni di frizioni nel mondo, questa missione sembra davvero impossibile…

«I giovani però possono riuscirci. Non è un percorso facile ma la nostra fede in un Dio risorto ci aiuta a capire che il perdono è una forma di resurrezione: è come far rinascere ciò che è morto in noi. In tante parti del mondo la comunità cristiana è un’istanza importante perché predica e realizza forme di accoglienza reciproca. Questa è una chance che dobbiamo saper spendere a beneficio di tutti: il perdono è l’espressione più pura, insieme alla ricerca della verità e della giustizia e alla pratica della solidarietà, della nostra fede. Sono declinazioni della resurrezione».

I conflitti e la mancanza di lavoro spingono le persone a migrare con mezzi di fortuna. Il Mediterraneo si è purtroppo spesso trasformato in una grande tomba dove hanno trovato la morte. Com’è possibile lavorare per rendere sicure le rive e per l’accoglienza?

«I giovani africani stanno portando all’interno del Consiglio molte esperienze personali. La voce viva di questi ragazzi ha parlato anche al Parlamento europeo. Conoscono ciò che succede perché hanno visto la speculazione economica vergognosa e il traffico di esseri umani. I giovani pongono alcuni problemi: quello della libertà di non migrare se sostenuti, quello della protezione e della legalizzazione dell’eventuale viaggio verso l’Europa. Poi una volta arrivati sul suolo europeo la questione è quell’accoglienza, della valorizzazione, dell’integrazione. Dobbiamo accoglierli riconoscendo la cultura di ciascuno».

Il tentativo di far coabitare le diverse culture del Mediterraneo era anche la missione del sindaco di Firenze Giorgio La Pira. Adesso, con la sede del Consiglio dei giovani che è stata inaugurata a Fiesole, è un po’ un ritorno a «casa» di questo progetto. Che segno vuole essere?

«Un segno straordinario della vitalità del progetto di La Pira che continua a camminare con queste giovani forze. A Fiesole si uniscono due dimensioni molto care a La Pira: prima di tutto la casa, all’interno della città, è un aiuto a mettere radici. Lui pensava che la città è il luogo della convivenza e tante crisi nel mondo moderno derivano proprio dalla crisi della città. Quindi da una parte si mette casa indicando che questo progetto ha bisogno di incarnarsi in tante città. E dall’altra parte si mettono le radici della convivenza che non ha paura di ciò che è grande come il Mediterraneo. Adesso può sembrare un atteggiamento velleitario ma tutti i grandi cambiamenti sono iniziati scommettendo sul buono anche se all’inizio sembra piccolo. Come Chiesa italiana vogliamo scommettere su questo».

E i giovani ci mettono tutta la loro energia.

«Dobbiamo guardare con tanta simpatia a questo tentativo. Davanti a Dio quello che conta non è ciò che fa rumore ma ciò che muove i cuori. Stiamo vedendo giovani cuori che si muovono per amore. Non sottovalutiamolo. La storia è fatta di questi segni che dobbiamo saper coltivare».