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Brexit, rischi politici più che economici

Può darsi che alla fine prevalga perfino il peggio. Cioè l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea senza nessuno accordo. In questa malaugurata eventualità si mette l’accento sulle conseguenze economiche da una parte e dall’altra anche se non sono forse le più importanti. Fra I’Inghilterra e paesi dell’Unione torneranno i dazi doganali. Dazi di circa il 3% sulle esportazioni britanniche e sulle esportazione europee. In totale le merci costerebbero un quindici miliardi di euro in più da una parte e dall’altra. Poi potranno riapparire le barriere non tariffarie, come quote di importazione e rispetto degli standard, che potrebbero costare altri 15 miliardi agli inglesi e circa 25 miliardi al resto del mondo. Va detto subito che per una «provvida sventura» il volume del commercio italiano con l’Inghilterra è meno del 4% del totale inglese e il nostro danno sarebbe quindi abbastanza ridotto. L’Italia sarà però chiamata a versare qualche cosa in più per compensare i circa 20 miliardi con cui l’Inghilterra contribuiva alle casse dell’Unione.

Il ripristino dei passaporti e dei controlli daziari fa prevedere colossali colli di bottiglia alle frontiere nei porti e negli aeroporti. Oltre Manica, temendo un rallentamento oltre che un rincaro nel rifornimento delle merci, c’ è già qualche psicosi da economia di guerra. C’è chi fa accaparramento di farmaci come i diabetici che temono che manchi loro l’insulina. Il primo ministro della Scozia ha già dichiarato ufficialmente che sta accumulando scorte di generi alimentari e di medicinali.

Poi c’è il problema dei settecentomila italiani residenti in Inghilterra fra tre milioni e ottocentomila europei emigrati negli ultimi decenni. Anche se il panico che li prende è oggi forse eccessivo, forse per rimanere ci vorranno cinque anni di residenza e una montagna di scartoffie. La Brexit si è nutrita anche di una forte ostilità verso l’immigrazione specialmente se non è qualificata e tutto può accadere. La nostra emigrazione è fatta soprattutto di lombardi, veneti ed emiliani e sono in buona parte laureati con una buona percentuale anche a livello più alto fra gli analisti della City. Per i meno attrezzati ci sono però brutte incognite. Il premier inglese Teresa May ha già detto che non ci sarà più porta aperta in Inghilterra per chi cerca solo lavoro, ma non ha la fortuna di essere, ad esempio, ingegnere o imprenditore, medico o almeno infermiere. In ogni caso non si potrà più emigrare nel Regno Unito per poi trovare lavoro. Prima bisognerà trovare lavoro e poi trasferirsi. Infine chi va a studiare a Londra ora rischia di pagare le tasse universitarie di 9 mila sterline (circa 7 mila euro) all’anno e di non aver più diritto, coma accadeva finora, di ottenere mutui per poterle pagare al pari degli studenti inglesi.

Tuttavia, nonostante che circa la metà dell’interscambio inglese avvenga con l’Europa e nonostante che in due anni la sterlina abbia perso di valore quasi il 20% con già diverse fughe di aziende all’estero, nelle ultime settimane la sterlina non si è ulteriormente svalutata e persino la Borsa britannica è rimasta sorprendentemente tranquilla.

I rischi per gli inglesi sono soprattutto politici e la Brexit rischia di fare implodere addirittura il Regno Unito così come è esistito da quasi cinquecento anni. L’uscita della Gran Bretagna dall’euro fa riaprire la grande ferita irlandese nata cento anni fa da una guerra civile cosi terribile che «nessun inglese doveva dimenticarla e nessun irlandese doveva ricordarla» come scriveva George Bernard Shaw. Quella guerra civile con la sua appendice nell’Irlanda del Nord è durata fino al famoso accordo del Venerdì Santo del 1998. Ma quella pace è stata dovuta soprattutto al fatto che l’appartenenza all’Ue dell’intera Gran Bretagna unificava di fatto anche l’Irlanda del Nord con la sorella Irlanda del Sud. Ora, dopo che gli irlandesi del Nord hanno votato contro la Brexit, l’uscita dell’Inghilterra dall’Unione ripropone frontiera, dazi e passaporti ad un confine approssimato ancora da ridisegnare fra Repubblica Irlandese e Irlanda del Nord da cui passano ogni giorno 6000 camion e 60mila auto. Per gli irlandesi dell’Ulster la fuga dall’Europa significa anche e soprattutto allontanarsi dai loro fratelli del Sud con una sorta di muro di Berlino senza cemento mentre c’è addirittura l’irlandese che vive da una parte e lavora dall’altra o che ha i suoi campi metà di qua e metà di là.

Anche gli scozzesi hanno votato in maggioranza contro la Brexit due anni fa dopo aver votato per l’indipendenza dall’Inghilterra nel referendum del 1914. Ora anche per loro naturalmente la spinta all’indipendenza ha una ragione in più perché significa non solo uscire dalla Gran Bretagna, ma rimanere in Europa. La signora Nicola Sturgeon che governa la Scozia ha già promesso un nuovo referendum per separarsi dall’Inghilterra perché, ha detto «con la Brexit per cui noi abbiamo votato contro, noi paghiamo il prezzo della nostra mancanza di indipendenza».

Va detto con estrema franchezza che anche l’Unione Europea non ha fatto molto per propiziare un accordo con Londra. In fondo ha prevalso una logica punitiva suggerita da una motivazione politica che vuole dare soprattutto una lezione esemplare a chi esce dall’Unione perché non ci sia nessun altro che pensi di copiare gli inglesi. Lo ha detto in maniera abbastanza esplicita Michel Barnier, il francese che ha condotto le negoziazioni per conto di Bruxelles: «Le concessioni non possono in nessun caso equiparare i benefici di una appartenenza all’Ue». E alcune condizioni poste dall’Ue sembrano per la verità molto vicine a ritorsioni. Fra queste la possibilità per gli inglesi di rimanere nei paesi europei senza visa solo per 90, o al massimo 180 giorni, l’obbligo per le compagnie aeree inglesi di essere partecipate da investitori europei se vogliono continuare a volare in Europa, i permessi di pesca nelle acque dell’Ue concessi solo fino alla fine di quest’anno e la stessa circolazione terrestre degli inglesi nel resto d’Europa concessa alle attuali condizioni solo fino alla stessa scadenza.

Così da una parte e dall’altra si finisce, come spesso succede, di terminare una guerra sempre ingiusta con una pace anch’essa ingiusta e di non comprendere che nella Brexit oltre alla vecchia idea della «Manica più larga dell’Atlantico», all’egoismo nazionale, alle antiche nostalgie imperiali, al sovranismo gonfio di inutile orgoglio e alla diffidenza verso lo straniero è confluita anche quella che Orwell definiva la «sofferenza ignorante» del povero che però si ricorda che una volta il suo paese era il paese della piena occupazione e del welfare che insegnava a tutti, mentre oggi è diventato uno dei paesi dove c’è più disuguaglianza ed ha votato male pur vedendo bene. Secondo Oxfam l’1% della popolazione inglese (634 mila persone) possiede quanto il 20% (13 milioni) di persone più povere.