Toscana

Cattolici e immigrati, polemiche sull’accoglienza

di Giuseppe Savagnone

Alla fine di un’estate in cui, sulle prime pagine dei quotidiani, le notizie dei continui sbarchi di clandestini si sono alternate a quelle di stupri e di omicidi perpetrati da extracomunitari, è naturale che da più parti si sia levato un grido di allarme. Non è solo la minaccia all’incolumità fisica a suscitare preoccupazione. Mons. Alessandro Maggiolini, in un articolo del 30 agosto scorso su La Nazione, dopo aver avvertito che «la gente è impaurita dalla criminalità dilagante messa in atto da immigrati in proporzione notevole», metteva in guardia contro il pericolo di «una sorta di livellamento civile della nazione italiana formata da popolazioni eterogenee e forse inconciliabili tra loro».

A rendere più incandescente il clima è venuta, all’inizio di agosto, la decisione del governo di varare un disegno di legge, in cui si dimezza, da dieci a cinque anni, il tempo di permanenza (con regolare permesso di soggiorno) in Italia necessario per ottenere la cittadinanza. Contro questa iniziativa, Umberto Bossi (cfr. La Padania del 26 agosto 2006) ha dato voce al pensiero di molti: «Noi vorremmo tenerci casa nostra. Vogliamo essere padroni a casa nostra. I popoli poveri vanno aiutati a casa loro (…) Ma perché noi dobbiamo metterci sulle spalle i problemi dei disperati del mondo?».

Una gran parte di responsabilità, in quanto accade, l’avrebbero i cattolici. Lo stesso mons. Maggiolini non esita a denunciare «un punto di vista pseudocristiano», in base al quale «si vorrebbero spalancare le frontiere a un’accoglienza sconsiderata», mettendo a repentaglio il legittimo ideale di «una convivenza ispirata dalla fede».

Da parte sua, Gianni Baget Bozzo, in un articolo apparso su Il Giornale del 24 agosto, osservava che «vi è un punto di convergenza tra la sensibilità cattolica e la sinistra, che riguarda la concezione della politica: la politica come compassione (…) Come se fosse un dovere del nostro Paese verso i trenta milioni di africani che dalle regioni subsahariane e dal Corno d’Africa tentano di salire verso l’Italia». In questa luce si chiedeva se non si sia perso il senso «dell’identità del cattolicesimo», ridotto all’idea che «la ricchezza è peccato», col conseguente abbandono «del cattolicesimo come insieme di principii e dottrine», fino a sacrificare «la religione, annegandola nella carità».

Che pensare di tutto ciò? Innanzi tutto, va detto che il problema non dev’essere minimizzato, come fanno certi esponenti della cultura «laica», che sembrano assai poco preoccupati dal pericolo di una perdita della nostra tradizione nazionale. Posizione – bisogna dirlo senza mezzi termini – irresponsabile, anche a prescindere da una prospettiva religiosa, perché porterebbe, nel tempo, alla tragica alternativa fra un puro vuoto spirituale e l’avvento di una egemonia culturale islamica le cui conseguenze sarebbero estremamente problematiche prima di tutto per gli stessi «laici».

Nel modo di affrontare la questione, però, vengono spesso usati argomenti che non reggono a un esame onesto dei fatti. Intanto, non è vero che siamo davanti a un’«invasione» legata alla linea del nuovo governo: nei primi sette mesi del 2006 gli immigrati sbarcati irregolarmente in Italia sono stati circa 11 mila, un dato in linea con quello dell’anno scorso, quando governava il centrodestra. Più in generale, non è vero che, in Italia, ci sono troppi immigrati, anzi, il nostro è uno dei Paesi europei che ne ospita la più bassa percentuale.

Non è vera neppure che la tesi che collega strettamente immigrazione e criminalità, soprattutto nei confronti del sesso femminile. In tutto il mondo occidentale, la violenza sulle donne si manifesta in innumerevoli episodi, di cui quelli in cui sono coinvolti stranieri costituiscono una minima percentuale. Senza dire che ci sono episodi di segno opposto, come quello di Iris, la badante honduregna (clandestina), che in agosto ha perso la vita per salvare una bambina italiana, e del tunisino Naser Othman (pure lui clandestino), che in luglio l’ha rischiata, anche lui per salvare tre ragazzi italiani.

Per di più, gli stranieri sono una indubbia risorsa. Uno studio realizzato dalla Fondazione Caixa di Catalogna rivela che senza di loro negli ultimi dieci anni Italia e Germania avrebbero registrato rispettivamente -1,17% e -1,5% del Pil pro capite annuale. Per non parlare, in Italia, delle 600 mila badanti che assistono con premura le nostre famiglie e i nostri vecchi.

Certo, il problema non riguarda esclusivamente l’inserimento lavorativo. Opportunamente, perciò, il ddl Amato subordina la concessione della cittadinanza non solo al tempo di permanenza in Italia, ma anche alla «verifica della reale integrazione linguistica e sociale dello straniero nel territorio dello Stato», nonché a un giuramento di fedeltà alla Costituzione. Una vera integrazione non significa assimilazione, ma esclude anche l’idea di un multiculturalismo che lasci le diverse etnie separate tra loro.

La sola via percorribile è quella di un interculturalismo che comporti un vero dialogo tra le diverse tradizioni culturali e religiose presenti sul territorio, nell’orizzonte dei valori della nostra Costituzione, di cui i diritti umani sono il nucleo imprescindibile. Bisogna capovolgere l’idea dello «scontro» in quella dell’«incontro» tra le civiltà.

Il dialogo, però, si può fare se si è in due. Ora, se da parte delle altre culture – in particolare di quella islamica – è molto forte il senso della propria identità, noi assistiamo al contrario, nel nostro paese (e non solo in quello) a una generale disaffezione nei confronti del nucleo di valori evangelici che stanno alla base della nostra civiltà. E non è certo con la logica del «tenerci casa nostra» che si rimedia a questa disaffezione. Al contrario, proprio posizioni del genere, con la loro carica di egoismo e di utilitarismo, ne sono una dimostrazione.

Se un torto, dunque, va addebitato ai cattolici, oggi, non è di essere troppo disponibili ad accogliere gli extracomunitari, ma di non svolgere adeguatamente quella funzione di fermento nella cultura del nostro paese, senza cui l’accoglienza non potrà diventare dialogo e finirà per dare luogo o allo scontro frontale o al progressivo svuotamento della nostra cultura e all’avvento di nuove egemonie tutt’altro che rassicuranti (ripetiamo: per gli stessi «laici»!).

Ciò non significa non porsi il problema della modalità in cui questa accoglienza deve essere regolata. Ma qui è fondamentale il ruolo della cooperazione internazionale. È verissimo che innanzi tutto, come dice l’on. Bossi, «i popoli poveri vanno aiutati a casa loro», e questo per favorire il loro stesso sviluppo, che non può non essere frenato e forse bloccato dall’esodo delle forze lavorative più sane e intraprendenti. Sfortunatamente, mentre ripeteva questo slogan, il governo di cui la Lega faceva parte a pieno titolo ha sistematicamente proceduto a tagliare gli aiuti italiani ai paesi poveri, per ridurli infine, con la Finanziaria del 2006 allo 0,11% del PIL, facendo diventare il nostro paese il più avaro, in questo campo, tra quelli occidentali.

Quanto alla critica di Baget Bozzo, ci sembra che il «principio di compassione» sia già presente nella parabola del buon samaritano. Il fatto è che per il cristianesimo il pericolo che i suoi principi e le sue dottrine siano «annegati nella carità» non esiste, perché, come ha ribadito Benedetto XVI nella sua enciclica, essi si identificano, precisamente, con questa carità.

Card. Scola: le religioni e il nuovo «meticciato» Le religioni sono la forza della democrazia. Questo, in sintesi, il messaggio lanciato dal cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, intervenuto il 2 settembre scorso al meeting Ambrosetti a Cernobbio (Co). «Ad una sana democrazia –ha sottolineato il porporato– non basta una religione civile, né è di alcuna utilità una religione ridotta nel privato. Ciò di cui vive è un riconoscimento pieno delle fedi personali e della loro appartenenza comunitaria». La democrazia, ha aggiunto il Patriarca di Venezia, «ha bisogno delle religioni, che siano anche soggetto pubblico per offrire a tutti, senza privilegi, proposte di vita valide sia sul piano personale che sul piano sociale». In questo contesto, il cardinale Scola ha quindi ribadito che «uno Stato laico autentico non è in conflitto con le religioni, ma si pone di fronte ad esse in un confronto dialogico e di riconoscimento», perché «nessun governo può produrre cittadini morali, ma, al contrario, sono i cittadini morali, spesso ispirati dalle religioni, a favorire la democrazia». Il Patriarca di Venezia si è poi soffermato sulla mescolanza di civiltà e culture in corso nella società moderna: questo «meticciato», ha detto, esige, da una parte, che le religioni creino il terreno di un interscambio diretto fra loro, «uno spazio di dialogo in cui possano giocare un ruolo nel discorso pubblico sui valori di civiltà». Dall’altra parte, però, c’è l’esigenza che il potere politico, nei confronti delle religioni, passi da un atteggiamento di tolleranza passiva ad «un’apertura attiva» che non limiti l’importanza pubblica della religione alla sfera del Concordato. Per la crescita della società italiana, occorre quindi una nuova laicità, in cui lo Stato sappia riconoscere «il peso del rapporto della verità con la libertà», in particolare con la libertà di coscienza, e sappia regolare positivamente gli aspetti conflittuali del pluralismo civile.

Islam, una Consulta non basta

Il discorso del card. Scola al workshop Ambrosetti (da Zenit.org)