Cultura & Società

Cattolici e Unità d’Italia, i «se» e i «ma» della storia

L’articolo di Franco Cardini sull’Unità d’Italia, che abbiamo pubblicato sul numero 6 del settimanale, fa discutere. Molte le lettere giunte in redazione, che hanno contestato in particolare il giudizio sul Ventennio. Pubblichiamo una di queste lettere e l’ampia risposta dello storico Franco Cardini, che ribadisce la legittimità di usare il condizionale nella ricostruzione dei fatti storici, che favorisce una più attenta valutazione di quello che è realmente accaduto.

La lettera: Professore, il fascismo non fu mai «buono»…

Da molti anni leggo «Toscana Oggi», di cui fui anche, in passato, occasionale collaboratrice; è un settimanale che apprezzo perché, fra le altre cose, è sempre stato fino ad ora una … voce onestamente fuori dal coro, con moderazione ed equilibrio. Per questo motivo sono rimasta molto stupita nel leggere l’articolo sull’Unità d’Italia (Unità d’Italia: ancora molto da fare e poco da celebrare)  del prof. Franco Cardini, sul numero dello scorso 13 febbraio. Non poche delle osservazioni del professore, di cui stimo già da tempo la cultura e l’impegno nel dibattito culturale, mi sembrano infatti eccessive e discutibili, a cominciare dalla tesi iniziale.

Il governo del paese dopo il 1861 fu, si sa, disastroso: vennero compiuti gravi errori di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze, non si può negare, ma asserire che, se la forma di governo fosse stata quella dello stato federale invece che dello stato unitario, probabilmente ogni problema avrebbe avuto soluzione, mi pare non condivisibile. La cosa può essere una interessante ipotesi per uno storico, ma nulla di più; leggendo l’articolo invece par quasi di capire che un’Italia federale avrebbe innescato una reazione a catena i cui benefici effetti si sarebbero propagati fino al Sud America e all’Iran … non è un po’ troppo?

Nulla di male nella fantastoria, c’è chi ne ha ricavato romanzi bellissimi (come «Il complotto contro l’America» di P. Roth), purché si separi nettamente la realtà dalla fantasia. Le cose andarono come andarono; il resto non si sa.

La parte dell’articolo che mi ha inquietato di più però non è questa, ma quanto è stato scritto a proposito di Mussolini. Si ripropone, a quanto mi sembra di capire, l’antica teoria di un fascismo nato «buono» e virtuosamente cresciuto fino al 1935, quando il contatto con il folle pensiero nazista lo corruppe, mutandolo e rendendolo di colpo un regime, da ammirabile che era, perverso e malvagio. No, non è così.

Il fascismo non fu mai «buono», ma fu violenza fin dall’inizio: fu violenza la marcia su Roma del 1922, furono violenza le «leggi fascistissime» del 1926 che soppressero le libertà fondamentali dell’essere umano, quelle di parola e di opinione, furono violenza l’omicidio di Matteotti (1924) e quello di Gobetti (1926), l’arresto e le torture inflitti a Gramsci (1933) e a tanti altri dissidenti che spesso poi morirono per i maltrattamenti subiti, come Gramsci medesimo, tutti eventi su cui si sorvola con stupefacente disinvoltura. Nessuno di questi fatti avvenne dopo il 1935, e la responsabilità di Mussolini in materia è fuori discussione; nulla del genere, a quanto risulta, avvenne mai nell’America di Roosvelt, a cui il duce è paragonato, dimenticando che il primo fu rieletto 4 volte presidente dai suoi concittadini in libere elezioni, non fu un autocrate impostosi con plebisciti farsa.

Anche il fatto che il lavaggio del cervello imposto alle persone fin dall’infanzia venga gabellato come un evento, in fondo, positivo, mi lascia assai perplessa: e meno male che simili abusi dei mezzi di informazione di massa sono cosa del passato … In generale mi sembra che la soppressione della libertà non possa essere in nessun modo compensata da singole benemerenze nell’ambito, poniamo, sanitario, o nella gestione razionale dell’orario dei treni e così via. No, anche se Mussolini fosse morto prima del 1935 (certo sarebbe stato un bene: chi può negarlo?) non credo che sarebbe stato il caso di dedicargli piazze e monumenti.

Ancora, si cita il pregiudizio ideologico della sinistra per cui «chiunque facesse appello ai valori patriottici veniva tacciato di fascista»: ma, a quanto mi risulta, mai nessuno di sinistra, nemmeno il comunista più ottuso e fanatico (gente di cui non voglio certo fare l’apologia, anzi) ha mai esortato a prendere il tricolore e a «metterlo nel cesso», come con grandissima vergogna si è sentito dire in questi anni da gente che è al governo. Non condivido neanche il sollievo con cui si guarda al presunto federalismo verso il quale ci si starebbe avviando: non pare, in realtà, che si tratti di un progetto chiaro, organico, bensì qualcosa di confuso, come una gran montagna che con sommi sforzi ha partorito il minuscolo topolino di una specie di autonomia fiscale, subito duramente contestata proprio dall’associazione dei sindaci italiani: segno che non doveva essere questo granché. Si dice che siano state apportate delle migliorie, si vedrà; di certo Cattaneo, che proponeva il federalismo per amore della patria e non certo per disintegrarla, si rivolta nella tomba.

Concludo dichiarandomi d’accordo con il prof. Cardini su un punto: se davvero lo sfascio del presente ci spinge a rimpiangere perfino una «temporanea correzione autoritaria» come se una dittatura potesse mai avere aspetti positivi e come se si potesse immaginare un tiranno disposto al part time, davvero c’è poco da celebrare.

Beatrice MeriggiLa replica: I «se» e i «ma» della storia Gentile e cara Signora, e gentili e cari Signori tutti,credo che la lettera di replica al mio articolo (Unità d’Italia: ancora molto da fare e poco da celebrare) del 13 febbraio che «Toscana Oggi» ha deciso di pubblicare sia una di quelle più intelligenti ed equilibrate tra le molte arrivate, tutte o quasi (credo) di dissenso e di protesta.

Potrei controsservare che è spesso – non sempre – vero che «chi tace acconsente» e che quindi molti sono d’accordo con me o si sono sentiti, se non convinti dal mio argomentare, quanto meno in esso coinvolti.

D’altronde, oportet ut scandala eveniant. È bene riflettere e discutere. Un articolo «scolastico» e conformista, se avessi avuto il cattivo gusto di proporlo, sarebbe passato giustamente inosservato o avrebbe lasciato delusi. Un articolo critico che ripercorresse il vecchio argomentare di alcuni settori del mondo cattolico (il Risorgimento «laicista», i diritti della Chiesa violati, la persecuzione anticattolica eccetera) sarebbe sembrato polemicamente «di parte» se pubblicato su un giornale cattolico. C’erano, d’altronde, da sottolineare degli elementi obiettivi e fondamentali che di solito vengono taciuti sia dai manuali scolastici sia dai mass media e che per questo restano ignoti ai più.

Li richiamo in ordine cronologico: la rilevanza europea e mediterranea del problema di un’Italia unita e gli interessi (soprattutto inglesi e francesi) che vi si concentravano; la scarsa incidenza dei temi unitaristici nell’opinione pubblica del tempo e la loro origine settaria, giacobina ed élitaria (contrariamente a quello che hanno cercato per lunghi decenni di farci credere, se c’era un tema del tutto estraneo al «sentire popolare» nell’Italia della prima metà dell’Ottocento era proprio quello dell’unità nazionale); la spregiudicatezza con cui il governo sabaudo e i suoi sostenitori del 1859-60 (in prima linea i «moderati toscani») seppero da un lato provocare le sommosse nell’Italia centrosettentrionale e quindi ricattare l’opinione pubblica delle borghesie della penisola e di tutta Europa ancora scosse per il «pericolo rosso» del Quarantotto presentando l’annessione al Piemonte (questa, in effetti, fu l’unità nazionale sotto il profilo istituzionale) come una soluzione adatta ad arrestare l’ondata rivoluzionaria; gli errori e le infamie dei governi postunitari e dell’Italietta, dalla repressione del «brigantaggio» allo sfruttamento del sud alla politica anticattolica e anticlericale alla sciagurata e ridicola politica coloniale alla legislazione antioperaia alla corruzione (che minacciò di travolgere Giolitti, peraltro il governante più intelligente che l’Italietta abbia avuto) fino al tradimento delle alleanze stipulate e all’ingresso in una guerra sciagurata.

L’ipotesi di un’unione della penisola in una forma non già accentrata (sul modello bonapartista), bensì federalistica, più conforme alla sua storia e alle sue tradizioni policentriche e municipalistiche, non è, come la lettrice mostra di ritenere, «fantastorica». Se mai, si tratta di adottare una chiave interpretativa ucronica, che è del tutto lecita sotto il profilo dell’esegesi storica e che è cosa ben diversa dalla fantastoria o dalla fantapolitica. Vede, Signora, la differenza tra la fantastoria e l’ucronia – la prima può essere divertente, ma è in genere parastorico-antistorica; la seconda è metodologicamente molto utile per la ricerca storica stessa – consiste nel fatto che la prima attribuisce al decorso delle cose storiche uno svolgimento diverso da quello che si è verificato – mentre la seconda, ponendo la domanda alternativa (che cosa fosse accaduto se eccetera…), non fornisce alcuna risposta predeterminata, ma sottolinea le infinite possibilità di sviluppo che ciascun evento ha racchiuso in sé.

Nella storia reale, gli eventi realizzano una sola di queste possibilità: ma le dinamiche di realizzazione non hanno nulla né di necessario, né di preordinato. Per cui è non solo utile e legittimo, ma necessario scrivere la storia anche con tutti i se e i ma che volta per volta si presentano: scriverla al condizionale, tenendo presente che il fine ultimo di tale operazione non è la costruzione di universi storici alternativi immaginari, bensì appunto la più profonda e attenta valutazione di quel che realmente è accaduto. Difatti, io non ho affatto affermato che se l’unità d’Italia non si fosse costruita sulla base della convergenza tra la potenza militare piemontese e la violenza organizzata di alcuni gruppi neogiacobini tutto sarebbe andato bene: ho semplicemente fatto notare che un’unione federale, del tipo auspicato dal Gioberti o dal Cattaneo, avrebbe posto allo sviluppo della politica del paese, dell’Europa e del Mediterraneo condizioni diverse e a mio avviso più coerenti con il passato della penisola e con lo sviluppo dell’equilibrio politico internazionale. Chiedersi se non sia «un po’ troppo» ipotizzare reazioni a catena che avrebbero potuto sentirsi fino all’America latina e all’Iran è legittimo: ma obbliga chi si pone tale domanda a studiare meglio, appunto, la storia dell’America latina e dell’Iran. Quando lo si sarà fatto, mi si darà ragione: perché è appunto molto probabile che un’Italia federale (come lo sarebbe divenuta la Germania nel 1870) avrebbe favorito il progetto di politica concorde dei paesi europei cattolici avviato dall’imperatrice Eugenia, il che avrebbe reso meno probabile l’insuccesso di Massimiliano d’Asburgo in Messico e poco probabili sia l’aggressione della Prussia all’Austria sia la successiva guerra franco-tedesca del 1870. Una Francia ancora forte nel Mediterraneo avrebbe impedito lo strapotere d’un’Inghilterra padrona dei due sbocchi di Gibilterra e di Suez; una gestione condivisa di Suez avrebbe impresso al mondo Vicino – e mediorientale una spinta molto diversa da quella che si è attuata, l’Inghilterra non avrebbe sviluppato in modo così mostruoso la sua superpotenza coloniale e non avrebbe cercato la complicità della Russia per mutare ulteriormente l’assetto eurasiatico e mediterraneo cancellando i grandi imperi sovranazionali austriaco e turco; e allora, la ferrovia Londra-Delhi avrebbe potuto divenire realtà. Non dico – a differenza di quanto avrebbe fatto un fantaromanziere – che tutto ciò sarebbe con certezza accaduto: sostengo che avrebbe potuto accadere. Il che avrebbe tra l’altro risparmiato al mondo la prima guerra mondiale con le sue dirette conseguenze: prime fra tutte il fascismo, il comunismo, il nazismo. Se Lei, Signora, ha argomenti per dimostrare che tutto ciò non avrebbe potuto comunque succedere, si accomodi e li esponga: altrimenti, parlare di Cattaneo che si rivolta nella tomba è solo un espediente retorico.

Quanto a Mussolini e al fascismo, nessun vecchiume tipo il fascismo «nato buono» o giù di lì. Mussolini era – e lo rimase fino a verso il 1936 – un politico abilissimo e spregiudicato. Che lo squadrismo prima, le «leggi fascistissime» poi, siano state violenza, è pacifico. Ma com’è che si è tanto rigorosi quando si tratta di condannare la violenza fascista e tanto distratti poi quando si tratta di condannare altre violenze? Le violenze dell’Italietta contro i «briganti», gli operai sui quali si sparava ad alzo zero, i contadini che si obbligavano a emigrare, gli abissini e i libici che si facevano oggetto di campagne coloniali, era forse violenza minore? E furono violenze minori furono la guerra anglo-francese detta «dell’oppio» contro la Cina, il genocidio statunitense dei native Americans, lo schiavismo nelle sue varie versioni  americana, inglese, francese, belga, olandese e portoghese, la bomba atomica su Hiroshima? È violenza minore quella che sta attualmente perpetrando la Nato in Afghanistan, ma purtroppo anche con la nostra complicità e i nostri soldi?

La Sua visione del fascismo, Signora, mi sembra ispirata al principio del Male Assoluto. Qualunque cosa abbia realizzato il regime, è stata un male. Ciò non è obiettivamente vero. Premesse le violenze e il sistema autoritario – che non mi sogno nemmeno di negare – ribadisco che il fascismo fu il solo sistema politico italiano che dette un qualche senso compiuto al Risorgimento unitario: e non possiamo dimenticare la Carta del Lavoro, l’efficientissimo avvìo dello stato sociale che cancellò al piaga della tubercolosi giovanile e fondò le basi dell’assistenza medica e pensionistica, i colpi di picconi dati al latifondismo in Lazio, in Sardegna e in Sicilia che si configuravano come l’inizio di una riforma agraria in grado di fermare il flusso dell’emigrazione ch’era stato una delle peggiori vergogne e delle più ignobili tragedie dell’Italietta. Aggiungiamoci una eccellente politica culturale, che ci regalò il decollo dell’industria cinematografica e portò l’Italia a livelli notevolissimi nel campo dell’architettura, della pittura e della scultura. E la stessa Conciliazione fu un passo ottimo e fondamentale: un sessantennio di governi liberali non c’era riuscito (anzi, non ci aveva nemmeno provato: si era limitato a derubare al Chiesa e ad avviare leggi anticattoliche).

Perché non dire con chiarezza che, se francesi e inglesi fossero stati meno egoisti a Versailles, Hitler non sarebbe andato al potere in Germania? E che se fossero stati meno ciechi a Stresa, e avessero dato ascolto a Mussolini, forse Hitler sarebbe comunque stato fermato sulla via delle sue rivendicazioni pangermaniste? Perché non aggiungere che, se Mussolini suscitò fra 1929 e 1934 l’ammirazione dello stesso Franklin D. Roosevelt, ciò risiedette nell’obiettiva concordia con la quale la piccola Italia e la grande America assunsero posizioni di analoga terapia sociale dinanzi alla «grande depressione»? Che l’Italia fascista sia stata un modello per il New Deal fu Roosevelt a dichiararlo: non significa niente?

Ancora, Lei mi attribuisce la citazione del pregiudizio ideologico della sinistra del dopoguerra per cui «chiunque facesse appello ai valori patriottici veniva tacciato di fascista». No, signora, non era un pregiudizio ideologico della sinistra. Era una precisa tattica tesa a umiliare i valori nazionali e a impedirne la rinascita: i comunisti e la sinistra se ne servivano senza scrupoli; i cattolici spesso tolleravano perché in fondo nemmeno loro – e sono io il primo a sostenere che ne avevano ottime ragioni – avevano mai amato il processo di unificazione nazionale così come si era verificato; e i «benpensanti» tacevano, intimoriti o indifferenti, perché sono tipiche dei «benpensanti» la mancanza di coraggio o la tendenza a farsi i fatti loro evitando di compromettersi. Che nessun comunista abbia mai invitato a «gettare il tricolore nel cesso», d’accordissimo: al contrario, il Pci aveva una sua visione nazionale e patriottica della rivoluzione socialista ch’esso auspicava e che esplicitamente si ricollegava al garibaldinismo. Ma la lotta contro quello che esso riteneva il «patriottardismo borghese, obiettiva anticamera del fascismo», la faceva eccome.

Infine, Signora, Lei – parlando del «lavaggio del cervello» totalitario afferma testualmente: «meno male che simili abusi dei mezzi di informazione di massa sono cosa del passato». Signora, roba del passato? Gli attuali sistemi di organizzazione del consenso Le sembrano davvero meno spaventosi di quelli totalitari, solo perché vengono condotti senza l’uso apparente della costrizione? E le sembra che l’illusione della libertà individuale sia preferibile alla coscienza della coartazione?

Franco Cardini