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CONVEGNO INTERNAZIONALE DI BIOETICA: CHE SENSO HA IL DOLORE?

Che senso ha il dolore? Come può la fede aiutarci ad accoglierlo? Sono due delle domande a cui si è cercato di rispondere nella seconda e ultima giornata del convegno internazionale di bioetica organizzato a Noto (Siracusa) e conclusosi ieri. Teologi, filosofi, medici e giuristi hanno condiviso insieme riflessioni impegnative ed emozionanti, concentrandosi soprattutto sulla sofferenza dei più piccoli e indifesi: i bambini.

Dare voce a chi non ne ha. “Di fronte ad un paziente che non ha ancora l’uso della parola – si è chiesto Salvino Leone, presidente dell’Istituto di bioetica “Salvatore Privitera” di Palermo – come si può fondare un’adeguata relazione di cura?” “Il bambino – ha spiegato – è un valore in sé e per sé, per il solo fatto di essere venuto al mondo. Abbiamo quindi il dovere di curarlo e di essere voce del suo silenzio, instaurando con lui un’alleanza terapeutica che abbia come unico interesse il suo bene”. Ma come si fa a comprendere e accettare un dolore così grande? “Il dolore è una prova – ha chiarito Marianna Gensabella Furnari, che insegna Filosofia morale all’Università degli studi di Messina – a cui nessuno di noi purtroppo può sottrarsi. È l’esperienza che ci ricorda la nostra fragilità, e che ci fa chiedere con rabbia: perché proprio a me? E a maggior ragione: perché proprio ai bambini, che sono così innocenti?”. “Il mondo di oggi – riconosce la Gensabella – tende ad anestetizzare, stordire, ridurre la sofferenza. Per noi cristiani, piuttosto, il dolore va accettato e soprattutto condiviso, con attenzione, cura ed empatia”.

Condividere la sofferenza del bambino. Se il bambino ha già la capacità di riconoscere la sua malattia, si pone il problema di renderlo partecipe della diagnosi, specie nel caso di patologie invalidanti come quelle oncologiche. In tale situazione, il ruolo del medico e di tutti coloro che lo hanno in cura diventa essenziale. “La mia regola consiste in una comunicazione dialogante, che metta il piccolo paziente in condizione di fare domande”, ha detto Momcilo Jankovic, medico specializzato in malattie onco-ematologiche dell’infanzia. “Comunicare vuol dire condividere insieme non una semplice diagnosi, ma un progetto di cura, accompagnando il paziente nella malattia e riconoscendo anche quando è il caso di fermarsi per non sfociare nell’accanimento terapeutico”.“Non può esistere una comunicazione medico-paziente perfetta, semmai parlerei di comunicazione possibile”, ha confermato Giorgia Brambilla, docente nella facoltà di bioetica dell’Ateneo “Regina apostolorum” di Roma. “Per effettuarla, lo specialista deve costruire un ponte fra le sue conoscenze e la sofferenza del paziente, e dei suoi familiari. È necessario saper dire la verità senza illudere, ma anche senza enfatizzare la severità della diagnosi. Al bando i termini tecnici ed ermetici: il medico deve comunicare, non trasmettere informazioni”.

Accompagnare il dolore dell’adolescenza. L’adolescenza, si sa, è un periodo critico, in cui la domanda di senso esplode in tutta la sua forza. “Se già la comunicazione con un ragazzo di questa età è impegnativa – ha sottolineato Pietro Grassi, docente alla Pontificia università della Santa Croce di Roma – ancor più lo è in un’epoca in cui l’elettronica ha preso il sopravvento, modificando le relazioni umane. Nati e nutriti con i media digitali, i nostri adolescenti si confrontano con la realtà tramite l’elettronica, rischiando la fine della socializzazione. Questo rende ancora più difficile stabilire un dialogo con loro”. “È quindi nostro compito – ha ammonito Graziano Martignoni, che insegna psicopatologia all’università di Friburgo – costruire orizzonti per i nostri ragazzi che hanno smarrito la meta. Per farlo bisogna esporsi, prendersi cura di loro. Chi di noi specialisti non è pronto a testimoniare ogni giorno la sua vocazione di curante, impegnativa e spesso dolorosa, farebbe bene a cambiare mestiere”.

I drammi della fecondazione artificiale. Si fa strada però anche una questione inedita e da non sottovalutare: questa è infatti la prima generazione di giovani fra cui si contano nati con la fecondazione in vitro, spesso vittime di una vera e propria “crisi d’identità”. Lo ha illustrato bene Gonzalo Miranda, decano della Facoltà di bioetica dell’Ateneo “Regina apostolorum” di Roma. “Sono ormai sempre più frequenti i casi di ragazzi che, raggiunta la maggiore età (e a volte anche prima) iniziano a chiedersi chi sono davvero i loro genitori, e magari si spingono a cercarli in un percorso di sofferenza e di negazione di sé. Emblematico il caso di una giovane americana che si è sentita rispondere, da colui che aveva contribuito alla sua nascita: Tu sei mia figlia, ma ricorda che io non sono tuo padre”. “È un allarme – ha concluso Miranda – che deve farci riflettere su quale sia davvero il senso della famiglia e della procreazione, frutto, per noi cristiani, di un abbraccio sponsale di affetto. La logica della procreazione è del tutto diversa da quella della produzione, e non può ridursi ad una mera operazione tecnica. L’amore fa la differenza”.

Sir