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Coppie gay, l’istituto familiare non si può spianare con la ruspa

Solo che, non occupandosi la legge italiana per niente di una relazione personale di vita comune di una coppia gay, e non riconoscendo dunque neanche qualche formula di registrazione o di unione civile, questo farebbe torto al «rispetto della vita privata e familiare». E lo Stato dovrebbe provvedere a colmare la lacuna. Alle tre coppie del processo di Strasburgo pagherà 5mila euro.

La vicenda era cominciata nel 2008, quando la prima coppia aveva chiesto al proprio Comune le pubblicazioni di matrimonio. Non le ottenne, ovviamente, e fece ricorso al tribunale, respinto; fece appello e in quella fase il procedimento fu rimesso alla Corte costituzionale, per giudicare la legge che negava il matrimonio fra persone dello stesso sesso. E la Consulta giudicò che sì, si poteva parlare di un «diritto di vivere liberamente una condizione di coppia» con la possibilità di introdurre un qualche riconoscimento giuridico che non toccava a lei dire, ma escludendo che ciò dovesse consistere nel matrimonio. Anzi, aggiunse la Corte, che il matrimonio sussista solo fra uomo e donna ha un diretto fondamento costituzionale (art. 29) e ciò non produce discriminazione, «in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio».

Questo chiaro principio giuridico resta scolpito nel momento in cui la Cedu censura le lacune del sistema italiano non perché non fa sposare i gay, ma perché non prevede nessuna forma giuridica «di unione civile o di relazione registrata» in cui siano indicati diritti e doveri. L’efficacia delle sentenze Cedu non è quella di una riscrittura automatica della legge interna degli Stati verso i quali il cittadino ha levato doglianza, ma l’impegno di quegli Stati ad adeguare la propria legge ai principi enunciati, con la discrezionalità e la libertà che la materia include. La Convenzione non impone modelli normativi unici (e tanto meno li impone questa sentenza) e in particolare lascia al legislatore nazionale le forme e i contenuti della disciplina giuridica in tema di unioni fra persone dello stesso sesso, con scelte che rientrano pienamente nella salvaguardata discrezionalità. Va detto, semmai, che non potendo noi forzare la nostra Costituzione, la scelta non potrà mai essere in Italia il matrimonio gay.

Che cosa potrà essere, allora? Anche chi trova discutibile il principio stesso di dare rilievo pubblico alla vicenda privata omosessuale, prevede che qualcosa muterà. Ma occorrerà, mettendo mano a un’impresa così delicata, non fare pasticci o errori.

Il primo errore sarebbe quello di truccare il nome e di dare alla «unione civile» lo stesso contenuto del matrimonio, magari con qualche delimitata eccezione. Non è questo il fabbisogno delle coppie gay per realizzare il loro «diritto di vivere liberamente la condizione di coppia». Il secondo errore sarebbe quello di fabbricare una condizione giuridica «omnibus» di livello semplificato, cui potrebbero accedere indifferentemente gli omo e gli etero, una specie di «matrimonio leggero» in modo da far sparire la diversità stessa. È l’equivoco improponibile della vecchia formula «Dico», mettere insieme chiunque con chiunque.

No, la comunione della vita (come la chiamò il diritto romano) fra uomo e donna, cioè la famiglia come società naturale, non ha bisogno di inventarsi altri istituti. È invece l’esigenza di inquadrare la diversa relazione della coppia omosessuale, se si aderisce all’indicazione della Cedu, ciò che suggerisce una regola ad hoc, apposta per loro. Non per farne «il coniuge uno e il coniuge due», ma per per regolare quegli aspetti pratici delle questioni che emergono e di cui si discute in forma problematica: diritti successori, locazione, assistenza sanitaria, alimenti, previdenza. Avendo presente che è per natura assente dalla coppia omosessuale il capitolo della trasmissione della vita, e dunque il grande capitolo giuridico della filiazione.

Sarebbe aberrante simulare una capacità generativa interna ammettendo il ricorso a fecondazione eterologa (e nel caso di maschi necessariamente a utero in affitto, vietato dalla nostra legge) per dare figli alla coppia omosessuale. I figli non sono un oggetto, un prodotto o un diritto del desiderio. Neanche i figli adottivi.

Poi, toccherà scegliere le misure delle regole nuove, fatte per loro, con adeguatezza e attenzione: e non sarà da farsi alla svelta e alla leggera, col rischio di combinare disastri. Chi pensa di costruire qualcosa di buono spianando con la ruspa l’inconfondibile istituto familiare, e la storia millenaria del suo diritto, omologandovi situazioni essenzialmente diverse, finirebbe per manomettere un capolavoro del creato.