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Così l’Arno si ribella alle promesse mancate

Ha voluto ricordarci che quella che abbiamo vissuto con tanta enfasi, non era, non poteva essere una festa, sia perché cinquant’anni fa ci sono stati 35 morti, sia perché abbiamo capito che nonostante il tempo, i rischi sono rimasti più o meno gli stessi e non c’è da fidarsi. Anzi, la situazione è peggiorata: ipoteticamente, oggi un’alluvione provocherebbe danni molto maggiori di quelli del passato, a causa dello sviluppo urbanistico ed economico della piana che unisce Firenze a Pisa. Per questo il bacino dell’Arno è considerato la seconda emergenza nazionale dopo il Vesuvio.

Certo, era giusto ricordare. E anche celebrare un po’ noi stessi. Perché affogati nella retorica degli angeli del fango, ci siamo distratti, e ad ogni anniversario non abbiamo capito abbastanza che sono stati prima di tutto i fiorentini a salvare Firenze, con la loro tenacia e il loro amore per la città. Quegli stessi fiorentini che ogni giorno litigano su tutto, ma quella volta, in quei giorni, decisero di non sprecare il fiato se non per raccogliere le forze e ripulire strade e piazze, cantine e negozi, abitazioni e garage. La reazione dei fiorentini fu così rabbiosa da lasciare di stucco il mondo, perciò è stata oggetto perfino di uno studio sociologico. L’analisi teorizza che quella forza fu legata alla situazione economica e sociopolitica del nostro territorio, che vedeva un grande protagonismo della rete costituita dalle parrocchie e dalle case del popolo, e oggi, che la situazione sociale è mutata, sottintende la domanda: ci sarebbe la stessa risposta? I fiorentini restarono in silenzio a spalare il fango, eppure ne avrebbero avute di cose da dire e da ridire, soprattutto contro il Paese legale, che non si fece vivo per giorni, e quando venne a vedere il disastro non comprese le dimensioni della tragedia.

Lo Stato ha continuato per cinquant’anni a promettere opere strategiche che mettessero in sicurezza la valle dell’Arno. Ancora si parla di casse di espansione, senza considerare che molte di quelle realizzate negli ultimi anni, sono state progettate tenendo conto della quantità di pioggia caduta nel 1966 e non dei cambiamenti climatici avvenuti nel frattempo, per cui in occasione dei nubifragi è stato verificato che l’entità della precipitazione – oggi si chiamano «bombe d’acqua» – è molto maggiore di quella calcolata allora. Mauro Grassi, che è fiorentino e direttore di Italia sicura, la struttura di missione di Palazzo Chigi contro il dissesto idrogeologico, ha assicurato che ora ci sono i soldi veri da spendere, 200 milioni. Non annunci, ma finanziamenti concreti. Sarà sicuramente così, ma mettetevi nei panni di chi ogni anno a novembre, da mezzo secolo, ascolta gli stessi discorsi. Poi va da sè che dobbiamo fare in modo che ci siano anche i progetti, per evitare che i soldi restino inutilizzati. Non sarebbe la prima volta.

Così come sono diventato allergico, ormai, alle promesse – per averne sentite tante e vane – sono anche allergico alla sfiducia congenita, spero dunque che il prossimo anniversario ci risparmi bluff e proclami, e ci consegni piuttosto i fatti che fino a oggi non abbiamo visto. Non vorrei che caduta la tensione, se ne riparli chissà quando. Esattamente come succede quando c’è un disastro naturale: si piange, si invocano interventi subito, poi sopravvengono altre urgenze e buonanotte al secchio. Ecco, l’Arno, che ci fece il dispetto del 1966, ha sbuffato proprio sotto il naso della retorica politica. A modo suo ha voluto beffarsi delle passerelle celebrative. Un avvertimento. O forse il castigo, per qualche bugia di troppo ascoltata dalle facili tribune del ricordo.