Vita Chiesa

Domenica delle Palme: card. Betori, “anche a noi affidata la parola di Dio per illuminare la vita e la storia”

L’invito che arriva dal Vangelo di oggi, dalla passione che l’evangelista Marco ci offre, “è ad affidare anche noi alla parola di Dio il compito di illuminare la vita e la storia. La sapienza umana può darci ragione di questo o quel fenomeno, ma non riesce in alcun modo a dare senso all’intera vicenda umana, personale e collettiva”. Lo ha detto l’arcivescovo di Firenze, il cardinal Giuseppe Betori nell’omelia pronunciata nella cattedrale di Santa Maria del Fiore in occasione della Domenica delle Palme.

“Potremo anche dare una spiegazione ai dati biologici del nostro vissuto, ma non riusciremo mai a darci una ragione dei limiti contro cui si infrange il nostro desiderio e la nostra speranza: primo fra tutti la morte. Per questo motivo solo sotto la Croce può risuonare credibile la parola della fede, proprio perché quella croce racchiude in sé, in quanto dono d’amore, il germe del suo superamento, il seme della risurrezione”, ha aggiunto Betori.

Alla Messa in cattedrale oggi era presente anche la presidente della Bce Christine Lagarde, in forma privata. Lagarde, a Firenze da venerdì scorso, ha fatto avvisare del suo arrivo l’Opera del Duomo poco prima dell’inizio della celebrazione, ha fatto la comunione e, terminata la Messa è stata avvicinata dall’arcivescovo Betori che le ha consegnato una palma benedetta. 

Di seguito l’omelia del card. Betori

Al momento dell’ingresso trionfale di Gesù la città di Gerusalemme si chiede: «Chi è costui?» (Mt 21,10). È la domanda che ciascuno deve porsi seguendolo nella sua Passione e contemplandolo Crocifisso. «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea» (Mt 21,11): è la risposta che la folla offre in quel primo giorno di Gesù nella città, ma appare subito provvisoria. Gesù è ben più di un profeta. Ne hanno chiara consapevolezza le autorità religiose che, per bocca del sommo sacerdote, alzano il livello dell’interrogativo e gli domandano se egli sia «il Cristo, il Figlio di Dio» (Mt 26,63). Gesù, anche se questo comporta la sua condanna, non teme di manifestare la propria identità di Messia e risponde che egli è sì il Cristo e lo è in quanto «Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza», che verrà «sulle nubi del cielo» (Mt 26,64), colui a cui è affidata piena signoria sul mondo nuovo che deve venire. Non meno importante è il riconoscimento della sua regalità nel dialogo con Pilato e soprattutto nella forma oltraggiosa da parte dei soldati, che lo deridono coronandolo di spine e ponendogli tra le mani una canna come scettro, sputandogli addosso e percuotendolo: una regalità, quella di Gesù, che è ben lontana dalle misure umane, fatta di condivisione e non di potere. Infine, sono gli stessi soldati, testimoni dei segni che accompagnano la morte del Crocifisso, che «presi da grande timore», sono portati a proclamare: «Davvero costui era Figlio di Dio!» (Mt 27,54).

Tra quella prima domanda e questa compiuta professione di fede si svolge una vicenda di umiliazione e di sofferenza, che mette alla prova la nostra fede. L’evangelista Matteo ci accompagna nell’interpretazione di fatti enigmatici, e perfino scandalosi – la morte del Figlio di Dio! –, con richiami a testi dell’Antico Testamento, per aiutarci a scorgere dietro ai fatti il disegno di Dio, che così mostra la sua volontà di salvezza dell’umanità, il suo amore per i peccatori, l’offerta di una redenzione per gli uomini e le donne di tutti i tempi, sui quali ricade come potenza di salvezza il sangue del Giusto.

L’invito è ad affidare anche noi alla parola di Dio il compito di illuminare la vita e la storia. La sapienza umana può darci ragione di questo o quel fenomeno, ma non riesce in alcun modo a dare senso all’intera vicenda umana, personale e collettiva. Potremo anche dare una spiegazione ai dati biologici del nostro vissuto, ma non riusciremo mai a darci una ragione dei limiti contro cui si infrange il nostro desiderio e la nostra speranza: primo fra tutti la morte. Per questo motivo solo sotto la Crocepuò risuonare credibile la parola della fede, proprio perché quella croce racchiude in sé, in quanto dono d’amore, il germe del suo superamento, il seme della risurrezione, preannunciata dai segni che accompagnano il momento in cui Gesù «emise lo spirito» (Mt 27,50): il velo squarciato dell’antico tempio, perché la presenza di Dio lo sta abbandonando per trasferirsi in ogni uomo che si unisce nella fede al suo Figlio; il terremoto, che scuote l’antica creazione ormai avviata a diventare cieli nuovi e terra nuova; i sepolcri che restituiscono alla vita i corpi degli eletti, che accompagneranno il Risorto come nuova umanità che prende posto nella città degli uomini. Solo questa fede è in grado di gettare una luce di speranza nel buio della storia umana, segnata da ingiustizie, sofferenze, lacerazioni, guerre.

Altrettanto importante per l’evangelista Matteo è mostrare come Gesù viva gli eventi dolorosi della sua Passione non subendoli, ma in piena consapevolezza e con autorità. Lo mostra già nell’ultima cena che condivide con i Dodici, offrendo loro nel gesto eucaristico il significato della Croce come offerta di sé; lo ribadisce al Getsèmani sia nella preghiera con cui si offre al Padre sia nella libertà con cui si consegna a chi è venuto a catturarlo; assume forte evidenza nel doppio processo che si traduce nella rivelazione della sua identità; si conclude con la morte in croce da cui scaturisce la proclamazione di fede dei presenti.

L’autorità sovrana di Gesù con cui egli domina la vicenda, che apparentemente lo vede vittima abbandonata e desolata, è il fondamento dell’autorevolezza con cui il credente e la Chiesa possono e debbono porsi di fronte al mondo, per offrire a tutti la certezza che la storia è redenta e che in Gesù, Profeta, Figlio dell’uomo, Re e Figlio di Dio, a ciascuno è dato un futuro oltre morte, una speranza che libera e consola. Possiamo con fiducia accettare di seguire questo Re umile e vittorioso.

In ciò che Gesù vive sono le radici della futura comunità di fede, la Chiesa. La Chiesa è sì la comunità di fede del Risorto, ma è anche la Chiesa del Crocifisso. Se la risurrezione le pone in mano la sorgente della vita nuova con cui offrire speranza al mondo, essa sa però anche che il volto del suo Signore andrà da lei ricercato nei volti dei poveri e sofferenti nel mondo. Questo duplice asse che regge la sua identità la premunisce dalla tentazione del trionfalismo e la sostiene nell’attraversare essa stessa la prova. La condivisione dell’umano e la certezza della grazia divina ci guidino nei giorni non facili del nostro tempo.

 Giuseppe card. Betori

Arcivescovo di Firenze