Vita Chiesa

Don Jelmetti, quarant’anni da prete in missione

di Giovanni Piani

Don Sergio Jelmetti (nella foto in Brasile) ha 78 anni e da 54 è sacerdote. Numeri sicuramente importanti. Ma quello che risalta di più è un altro: don Jelmetti è un prete della Diocesi di Fiesole che da quarant’anni è in missione in Brasile. All’inizio da solo. Poi con tempo l’hanno raggiunto altri due sacerdoti fiesolani: prima don Franco Manetti, poi don Gabriele Marchesi. Per raccontare la sua opera ha pubblicato un lungo articolo anche il giornale del Consolato italiano in Brasile. Adesso, per un po’ di tempo, è tornato a casa sua a Figline Valdarno. Non per piacere. Ma solo per effettuare un delicato intervento chirurgico agli occhi. E in questa occasione lo abbiamo intervistato.

Don Jelmetti, come è nata la sua vocazione ad andare in missione: è sempre stata parte integrante della sua vocazione al sacerdozio o è maturata in seguito all’ordinazione?

«Quando ho studiato a Fiesole, il liceo e poi la teologia, ho avuto amici che erano studenti dei comboniani. Mentre frequentavo il secondo anno di teologia mi è venuta l’idea di andare a parlare con un padre comboniano che avevo conosciuto: andai a Villa Pisa (dove risiedevano i comboniani), non lo trovai e non ci sono più tornato! Venni ordinato nel ’54, con altri 6 seminaristi; il vescovo mi mandò per un anno a Piandiscò e quindi a Poggio alla Croce. Il mio professore di musica, che si occupava del gruppo scout, mi invitò a partecipare ad un campo scout con lui, e da lì è cominciato il mio lavoro con gli scout di Firenze. E poi cominciai a insegnare nelle scuole. E così ho passato 14 anni. Però quell’idea di andare in missione è sempre rimasta in me, finché un giorno presi la decisione di partire e andai dal vescovo dicendogli che mi sarebbe piaciuto andare in Africa. Lui mi rispose: vai in Brasile, dove abbiamo già due sacerdoti».

Come fu l’inizio dell’esperienza in Brasile?

«Arrivai in nave a Rio de Janeiro, ma la mia destinazione era il Maranao. Mi spostai a Salvador de Bahia, ma arrivare nel Maranao era un problema, ci si poteva arrivare solo con gli aerei militari. Alla fine giunsi a Coroatà, con l’intenzione di non prendere alcuna responsabilità, solo aiutare chi già operava lì, per fare un pò di “gavetta”. Ma ogni volta che incontravo il vescovo di di San Louis, mi diceva: “bisogna che tu vada a Vitoria do Mearim”. Io non mi rifiutavo, ma chiedevo di rimanere ancora un pò dove ero, per imparare a conoscere meglio ambiente, persone, costumi. Fino a qundo mi disse, era il 15 luglio: “ragazzo, a Vitoria il padre sta morendo; hai il cuore di lasciarlo morire da solo?”. “Se la mette a questa maniera, io domattina vado là”, risposi. Non c’era neppure una strada, bisognava guadare il fiume, il Mearin. Mi hanno ricevuto molto bene, con la sfilata delle scuole, il pranzo a casa del sindaco; quindi celebrai la santa Messa e andai a dormire».

E poi che cosa avvenne?

«Il padre di là era molto malato. Un giorno mi chiamarono a Santa Cruz do Mearim per celebrare la Messa. Non volevo andare, perché il padre stava male, ma tutti mi spingevano ad andare. Quindi andai, celebrai la Messa e amministrai battesimi. Il giorno dopo ripartii per Vitoria, dove arrivai a sera. La prima cosa che feci fu andare a trovare il sacerdote, che mi disse: “Ragazzo, che volevi lasciarmi morire da solo?”. Le stesse parole che aveva utilizzato il vescovo chiedendomi di partire da San Luis. Celebrai la Messa, e portai la Comunione al sacerdote, che dopo poche ore morì: ero rimasto solo, in una parrocchia più grande della Diocesi di Fiesole. Settantacinquemila abitanti, sparsi, senza strade. Gli unici mezzi di trasporto erano barche e canoe. Una signora di Fiesole mi ha aiutato a comprare un motoscafo, per visitare tanti paesi, dove spesso sono stato io a celebrare la prima messa del luogo. Da allora ho amministrato quasi 33000 battesimi».

Quale fu il primo impatto?

«Arrivato nel Maranhao, subito mi accorsi di quanto grave fosse il problema della formazione del clero, i seminari venivano costruiti e nemmeno inaugurati. E non avere seminaristi significa poi non avere preti. Ma lo Spirito Santo accompagna la Chiesa: nacquero le Ceb, le Comunità ecclesiastiche di base. Io ci ho creduto: era ciò che San Luca scrive negli Atti degli Apostoli. Fu una grazia grande dello Spirito Santo: da dentro la chiesa, i cristiani ben disposti a ricevere la grazia di Dio hanno accolto questa esperienza, si sono formate tante comunità. Ma la parte dominante della società non le ha accettate, tanto che mi chiamavano “sovversivo”. A causa di questo la gente si sentì un pò in difficoltà, ma riuscimmo a continuare. Grandi problemi si ebbero negli anni 80-90, quando i proprietari e i contadini si facevano guerra e si ammazzavano. Noi ci siamo riuniti con i dirigenti delle nostre comunità, e ci dicevamo: “Non si può ammazzare! Ma dobbiamo impegnarci affinché i nostri contadini possano lavorare e vivere”. Ma anche questo dava fastidio e più volte mi hanno portato nei commissariati di polizia. Le prime volte andavo con l’avvocato, poi quando vidi di che si trattava cominciai ad andare da solo. Tra l’altro mi piaceva, perché era una opportunità di mostrare il nostro lavoro, alla luce del sole. È costato sacrificio, ma in fondo mi lascia allegro, felice, perché siamo riusciti a risolvere un problema con spirito cristiano. Vedendo come funzionavano le nostre comunità il governo poi espropriò i grandi latifondi, affidando le terre ai vari paesi, dove quindi si organizzarono comunità, si cominciarono a costruire case al posto delle capanne, in alcuni paesi ebbero anche il trattore, insomma la cosa cominciò a funzionare».

Come era il rapporto con i grandi proprietari terrieri?

«Un aneddoto. Ai due estremi del comune stavano due grandi proprietari terrieri. Non si conoscevano tra di loro, ma entrambi conoscevano me. Entrambi, in tempi diversi, mi chiesero: “mi aiuti a portare pace nella mia terra”. È stato lo Spirito Santo… chiesi loro: “quando muore un povero, cosa metti nella cassa?”. “Il povero”. “E quando muore un ricco?”. “Il ricco”. Entrambi mi risposero: “Padre vada lei all’ufficio della terra, e io firmo per darvi quello di cui avete bisogno”. Un altro. Noi preparavamo al battesimo in questo modo: il sabato sera, Messa nella chiesa madre, quindi riunione per i genitori ed i padrini. Spesso veniva chiesto di far da padrino a uno dei ricchi del paese, che solitamente si mostrava restio a partecipare alle riunioni. Ma io sono stato educato che siamo tutti uguali, quindi chi non veniva alla preparazione non poteva fare da padrino. Non si può amministrare un sacramento senza una adeguata preparazione. E la maggior parte di questi signori non ha mai fatto il padrino di battesimo!».

Una bella presa di posizione…

Era il minimo che si poteva fare, altrimenti non siamo giusti».

Ma torniamo alle Ceb: come erano organizzate? E come si svolgeva l’attività?

«La Ceb aveva una piccola organizzazione: dirigente, segretario, tesoriere. In tutti i paesi dell’interno del Maranhao c’era vita religiosa solo quando arrivava il prete. Con le Ceb invece si apriva la chiesa più volte alla settimana, non solo quando c’era il sacerdote. Iniziarono le celebrazioni tutte le settimane, quindi furono preparati i ministri dell’Eucarestia e in alcuni posti si cominciò anche a tenere il Santissimo, in modo che la gente potesse fare la Comunione anche in assenza del prete. Grazie alle Ceb la chiesa recuperò il suo valore di punto centrale della comunità: centro di culto e di studio della religione, ma anche di discussione dei problemi sociali».

Immagino che spesso, quando ha cominciato ad operare, non ci fosse alcuna struttura…

«In tanti posti non c’era neppure la chiesa, o al massimo c’era una capanna. Abbiamo quindi cominciato a costruire le chiese: il popolo ci metteva la manodopera, e io in qualche modo tentavo di trovare il materiale. Ma non solo. Con le chiese abbiamo anche costruito dei Centri comunitari (tre sale, cucina e bagni) per l’attività della comunità: catechismo, giochi… In totale circa 100 edifici. Poi don Enrico Nardi, fondatore dell’Oami, mi propose di costruire nella mia parrocchia una casa della sua associazione per handicappati e malati. Io accettai: oggi la casa ha tredici assistiti, e otto operatori. Si occupa dell’assistenza a malati e a vecchi. Inoltre come parrocchia abbiamo un gruppo che visita le famiglie, per accorgersi in tempo di difficoltà e problemi; e grazie all’Oami riusciamo a far pressione sugli uffici governativi perché intervengano nei casi di bisogno».

Avete scuole?

«Quando sono arrivato, la parrocchia aveva una scuola con 32 alunni. Non aveva nemmeno un suo edificio. L’abbiamo costruito. Oggi abbiamo corsi elementari, medi, liceali e professionalizzanti, e ora prepariamo anche gli insegnanti. Quest’anno ci sono 800 alunni iscritti, e grazie a Dio è una scuola che gode di una buona reputazione».

Ormai sono un pò di mesi che è qua in Italia: comincia a sentire nostalgia?

«Il motivo del mio rientro in diocesi è stato dovuto alla necessità di un trapiando di cornea. A breve avrò un controllo, poi spero di ripartire per il Brasile. Anche se, per obbedienza, non potrò starci tanto. Infatti il Vescovo di Fiesole mi ha detto: “Dopo 40 anni è ora di tornare”».