Opinioni & Commenti

Dopo l’amore, la speranza. Il Papa richiama all’essenziale

di Giuseppe Savagnone

Al di là di ogni intento adulatorio o apologetico, bisogna riconoscere a Benedetto XVI il grande merito di richiamare, attraverso il suo magistero, i contenuti teologici essenziali della prospettiva cristiana, in un momento storico in cui essa sembra disperdersi e talora banalizzarsi in una miriade di questioni etico-politiche importanti, sì, ma periferiche rispetto al nucleo del vangelo. Dopo l’amore, la speranza.

Qui veramente siamo al cuore della «buona notizia» per uomini e donne che vivono «la fatica del cammino» e che hanno sperimentato il disincanto del futuro, dopo il fallimento delle grandi ideologie del progresso scientifico e della rivoluzione socialista. Qualcuno ha detto che il Papa si è rivolto solo a una immaginaria comunità cristiana rigorosamente ortodossa e comunque esclusivamente occidentale. A noi sembra che rimettere in primo piano, dopo una lunga censura (e auto-censura, da parte degli stessi cristiani), il tema del destino finale della vita umana sia significativo per ogni persona che non voglia limitarsi a vivere la propria esistenza quotidiana nello stordimento dell’«attimo fuggente», condannandosi alla stanchezza di un divenire senza senso (nella duplice accezione di «direzione» e di «significato»).

Che poi questo venga fatto – è stata un’altra accusa rivolta all’enciclica – dal punto di vista cristiano, considerato l’unico pienamente valido, puntando sull’idea di «vita eterna», senza riferimento ad altre proposte di salvezza, non è poi così strano, in un testo che non intende essere un’opera di teologia e meno che mai di filosofia, ma una proposta autorevole rivolta dalla guida suprema della Chiesa per richiamarne a tutti – e agli stessi cristiani – la dottrina.

Perché la Spe salvi si rivolge a ogni uomo e a ogni donna che sperimentino il logorio di una vita angustamente conclusa nelle piccole speranze che disilludono, per aprirli all’orizzonte sconfinato dell’incontro con Dio; ma si rivolge anche, e forse innanzi tutto, ai credenti, che sembrano aver smarrito le grandi coordinate della speranza teologale e averla sostituita con una miriade di progetti  troppo esclusivamente terreni, relegandola in un vago «oltre» che non influisce sulla loro esperienza presente. Ad essi il Papa ricorda che la speranza, se è quella vera, non può non plasmare e trasformare anche l’oggi, perché non si riduce a un mero atteggiamento soggettivo di attesa – «sono già presenti le cose che si sperano»! – , e li rimprovera di avere ridotto spesso questa speranza a un fatto individualistico e intimistico, che non coinvolge la comunità e la storia.

Pienamente riuscite ci sembrano anche l’individuazione e la trattazione dei «luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza: la preghiera, l’agire e il soffrire, il Giudizio, con una riflessione sulla dottrina del purgatorio, realtà, queste ultime, di cui nessuno osava più parlare. Se mai, forse, mancano nell’enciclica dei riferimenti a come nel corso della storia passata e di quella presente i germi di questa speranza si trovino ampiamente disseminati, non solo nell’esperienza religiosa dei santi e dei martiri, ma anche in quella «laica» dell’umanità di ieri e di oggi. Ma già così essa ha un respiro «cattolico», universalmente umano, che la rende accessibile anche a chi non si riconosca nella tradizione cristiana.

In ogni caso, qualunque sia l’accoglienza dei non cattolici, il nostro augurio è che la Spe salvi venga letta e meditata con attenzione dalle nostre comunità ecclesiali e le scuota, immettendo nella loro attività pastorale, spesso ancorata al mantenimento dell’esistente, l’ampiezza di orizzonti che la caratterizza. Forse mai come in questo momento le nostre Chiese hanno bisogno di questo richiamo al futuro. Che la parola lucida e profonda del Papa valga a renderci «capaci della grande speranza e così diventiamo ministri della speranza per gli altri».

Lo speciale sull’enciclica