Opinioni & Commenti

Fa più morti l’emigrazione che una guerra

di Romanello Cantini

Nei giorni scorsi Laurens Jolles, il delegato dell’agenzia Onu per il rifugiati (Unhcr), ha detto che un quinto dei migranti che dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa muoiono durante il loro viaggio. È una percentuale di vittime superiore a quella di un esercito in guerra anche se questo dramma rimane nell’ombra perché di chi emigra si vede l’arrivo e non il viaggio. Ma di emigrazione si muore. Lo impararono a loro spese anche gli italiani quando erano loro ad emigrare anche se sono state date sempre poche notizie del naufragio di questi sudici Titanic. Nel 1880 il piroscafo «Ortigia» affondò davanti alla costa argentina con 149 italiani scomparsi in mare. Otto anni dopo, di fronte al Canada, fece naufragio la nave francese «Bourgogne» con 549 morti. Nel 1906, al largo di Capo Palos, vicino alla Spagna, mentre cercava di raggiungere l’Atlantico, andò a picco il bastimento italiano «Sirio» con cinquecento morti in gran parte emigranti. Quasi tutti emigranti erano anche le oltre mille vittime del piroscafo inglese «Imperatrice d’Irlanda» affondato alla vigilia della prima guerra mondiale.

La fantasia popolare ha conservato traccia di questi massacri più della storia. Essere divorati dalla balena come metafora del naufragio dell’emigrante fa parte della canzone Mamma mia dammi cento lire e perfino nel libro più popolare dell’Ottocento Geppetto va a finire in pancia all’enorme mostro perché è partito per «le lontane Americhe».

Ancora oggi quando un senegalese o un eritreo giunge a Malta o a Lampedusa è visto spesso come l’intruso e non come il reduce, ma si potrebbe dire forse il superstite, di un’odissea iniziata mesi ed anni prima. Si tratta di gente che, dopo aver lasciare il proprio paese, ha attraversato il deserto ora a piedi, ora su una sorta di sgangherato taxì collettivo, ora sotto la coperta di un camion a quaranta gradi all’ombra, rischiando perfino di restare abbandonato nel mezzo. Sono uomini che una volta fuori della loro patria non hanno più diritti e protezione. Sono vittime di poliziotti, di doganieri, di predoni, di scafisti che possono picchiare, rinchiudere, rimandare indietro, prendersi il rotolo di soldi nascosto nei pantaloni. E allora bisogna subire, pagare il pizzo, interrompere il proprio viaggio, mettersi a fare i lavori più impossibili e più precari per cercare di rimettere da parte i mille dollari che costa il salto da una costa all’altra del Mediterraneo. Qualcuno ha notato che l’alto tasso di donne incinte che si trovano sui barconi sono almeno in parte frutto di una prostituzione forzata. E infine viene poi la traversata sul carrette che non tengono più il mare, destinate al loro cimitero con il loro ultimo viaggio come i duecentoquaranta scafi che si contano fra il porto e il campo sportivo di Lampedusa, zeppe di piedi fra le taniche di acqua e di nafta, senza un pilota che altrimenti sarebbe arrestato, con il solo ordine di puntare al nord, con la scommessa su una rotta a lume di naso senza mappe e senza bussola, con la speranza di trovare un’isola che si metta di traverso e che non  sia più Africa, con lo scongiuro che il vecchio motore non si ingolfi, che il mare rimanga calmo, che gli scogli si facciano vedere in tempo.

E’ bene un po’ ricordare questa odissea di colore nero perché, nell’accogliere e nel respingere, si continua a ragionare per numeri, mentre dovrebbe entrarci anche il calcolo della somma di così tante sofferenze personali, di una posta considerata così alta da chi bussa alle nostre porte che di fatto ci hanno puntato sopra il prezzo della propria vita. Per fortuna ci sono molti segnali che anche chi è più vicino alle porte di ingresso non bada solo a se stesso. Anche a Malta dove i quattrocentomila abitanti vivono già in una densità di popolazione che è la seconda del mondo. Anche a Lampedusa dove gli emigranti diventano spesso di gran lunga più numerosi degli abitanti.

Quindici giorni fa a Lampedusa gli italiani si sono gettati in mare per salvare chi aveva fatto naufragio e non sapeva nuotare con una catena umana. Sette giorni dopo la guardia costiera è salita a bordo di un nuovo barcone che stava affondando e si sono presentati come uomini e non come poliziotti, con un «Welcome to Italy».

Eppure nonostante che si possa morire nel viaggio fra l’Europa e l’Africa, nonostante che si cerchi di mettere nel mezzo fra la Libia e Lampedusa, oltre alla tinozza del mare, le transenne della razza, della religione, perfino della civiltà, la distanza fra i due continenti rimane corta. Nel tratto più vicino ci sono i chilometri che stanno fra Firenze e Bologna. Lo diceva già Socrate al suo tempo degli uomini che si affacciavano sul Mediterraneo: «Siamo come rane intorno ad uno stagno». Se l’Europa vuole può impedire prima di tutto le morti in mare. Ne ha la tecnologia e le capacità. Gli elicotteri dell’agenzia europea  Frontex con i loro radar sono in grado di notare un sacco di plastica che galleggia in superficie. Basta solo potenziarli, dare loro il compito di sorvegliare anche il mare con i loro disperati alla deriva oltre che le frontiere e di collegarli ad una efficace rete di soccorso.

Ma in prospettiva possiamo fare molto di più per chi è tentato di partire e per chi resta oltre che prendersi collettivamente la responsabilità di chi arriva. Purtroppo o per fortuna l’economia nordafricana è determinata nella sua quasi totalità dalle risorse che giungono dall’esterno. Soprattutto da quelle che può mettere a disposizione l’Europa con le sue scelte ora che il vento della libertà le rende più facili e produttive: gli investimenti stranieri, il turismo, le rimesse degli emigrati, l’acquisto di materie prime.