Lettere in redazione

Fiat, sindacato e dottrina sociale

Giuseppe Savagnone, nell’editoriale del n. 3, dedicato al referendum alla Fiat (Referendum Fiat, ottenuto sotto minaccia l’unico risultato che consenta prospettive), lamentava la mancanza di dibattito su questi temi tra i cattolici. Ben volentieri dedichiamo l’intera pagina alla lunga lettera dell’ing. Recami (con qualche taglio indispensabile per ragioni di spazio) e alla replica del prof. Savagnone, tenendo conto che sull’argomento sono arrivate anche altre lettere.

Egregio Direttore,mi riferisco al commento di Giuseppe Savagnone sul referendum alla Fiat dal bellicoso titolo: «Ottenuto sotto minaccia l’unico risultato che consenta prospettive», poi ripreso nel titolo interno, evidentemente quindi espressione del giornale: «Fiat, risultato positivo ma vicenda gestita male». So che il prof. Savagnone, che leggo su Avvenire, è esperto di scuola e di altre cose e capisco il suo intento alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, ma siccome esprime un giudizio deciso, come ovvio in un commento, in un campo che non è propriamente il suo, sarà penso consentito esprimere una valutazione diversa dalla sua.

Da più di 40 anni sono nel mondo del lavoro delle imprese, vivendolo dall’interno e dall’esterno. Ne ho, quantomeno, una conoscenza viva ed esperienziale. Mi colpisce, d’impronta, quel: «sotto minaccia» del titolo, poi ripetuto all’interno dell’articolo, termine un po’ più tenue del ricatto con cui è stato etichettato da tanta parte di media e politici e, come si è visto, subito ripreso sui muri dell’attentato a Lando Conti, a Firenze (potenza delle parole!). Perché si parla di minaccia-ricatto? Vogliamo dare un senso reale alle parole? Minaccio se ti induco, da una parte, ad un esito peggiore di quello che ti propongo, dall’altra. Ma la proposta Fiat, accettata dalla maggioranza di 3 sindacati, che comporta un aumento di salario di 3700 € (non poco per chi ne prende sì e no 30.000), insieme alla garanzia del lavoro sono peggio della perdita totale del medesimo? Perché, si badi bene, l’alternativa di chiusura di Mirafiori sarebbe stata non un perverso frutto della sadica cattiveria di Marchionne, ma una fatale conseguenza della perdita di competitività che l’industria italiana dell’auto ha ormai abbondantemente conseguito. Non credo che qualcuno serio abbia il coraggio di sostenere che la rinuncia di 10 minuti al giorno di pausa (contrattata e remunerata), o il mancato pagamento del 1° giorno di assenza dopo reiterate assenze in prossimità di ferie e week end, sia un attentato alla libertà sindacale o, come ho sentito dire e scrivere, alla Costituzione.

Perché dire, come nel commento, che «non è stato lasciato alcuno spazio ad un serio confronto»? Con chi si sarebbe dovuto confrontare Marchionne, se gli stessi sindacati che rappresentano i lavoratori hanno accettato? Avrebbe dovuto lui indire un referendum di consultazione? Ma vedo che, in realtà, il commento sorvola sull’aspetto più concreto, ammettendo che «il risultato consente prospettive economiche favorevoli a medio e lungo termine per gli operai, per Torino e per il Paese», per soffermarsi su: «un metodo che ha leso la loro dignità». Da uomo pratico mi basterebbe fermarmi a quelle prospettive economiche favorevoli chiedendo, retoricamente, chi mai, oggi, è in grado di prospettare  situazioni favorevoli, addirittura a medio e lungo termine, visto che, al più, qualcuno ci tranquillizza a breve termine? Ma la mia concretezza non è insensibilità e quotidianamente mi capita di misurarmi con la dignità delle persone, nell’ambito del lavoro. E lo faccio, si badi bene, guardando da due fronti: quello dei lavoratori (mi occupo di sicurezza), ma anche quello degli imprenditori. Perché è dignità ferita anche quella di non poter far fronte ai propri impegni, per mille ragioni, che vanno dai mancati pagamenti, alla burocrazia asfissiante ma anche, specialmente nelle grandi imprese, dal lassismo di alcuni lavoratori, che è spesso quanto meno coperto da un organismo sindacale che, tramite «conquiste acquisite» e protezione unica nei confronti di chi il lavoro ce l’ha già, tende a mantenere più sé stesso che i lavoratori.

Dunque la dignità colpita qual è, nel caso Fiat? L’essere stati messi di fronte al «o così o Pomì»? Ma se a un figlio lazzarone dico: o studi o non ti do più soldi: vai a lavorare, è una minaccia-ricatto o un atto educativo dovuto? Il paragone è forse poco felice, ma ci siamo capiti nella sostanza, non è vero? Oppure lede la dignità l’aver stabilito che il sindacato che non partecipa all’accordo non è più rappresentativo? Ma ci sono, o no, regole comuni da rispettare in qualsiasi convivenza? Come è possibile che uno che non voglia condividere le regole pretenda, comunque, di far parte del gioco? Se vivo in un condominio, non mi posso sottrarre alle regole. Se mi voglio sposare devo impegnarmi a rispettare vincoli e condizioni del matrimonio, altrimenti neppure mi sposano, né in Comune né in Chiesa.

Savagnone fa un discorso più alto e di prospettiva quando, dando un colpo al cerchio (l’arroganza sindacale, i governi passati che difendevano, in chiave assistenzialistica..) ed uno alla botte (l’arroganza padronale, il premier attuale che sostiene unilateralmente le ragioni degli imprenditori), si confronta con le parole del Papa sul «principio di gratuità, la logica del dono, che devono trovar posto entro la normale attività economica». Dice Savagnone: «quello a cui abbiamo assistito non ci sembra vada in questa direzione». È poi così, mi dico io? Nel caso specifico mi sembra si debba rimanere nei termini della realtà perché qualcuno deve poi applicare nel concreto le parole del Papa, ammesso che le condivida (io sono fra quelli).

Ma la sopravvivenza dell’industria auto in Italia, e ormai di tanti pezzi di quella manifatturiera in genere, è più che minacciata, quasi al tracollo. Di fronte ad una prospettiva realistica (su quanto realistica, se mai, ci sarebbe  da discutere) di un allargamento di orizzonti e di accordi, come non vedere questa come l’unica soluzione veramente concreta e possibile, l’unica che può davvero salvaguardare il lavoro di migliaia e migliaia di persone? Il mantenimento del lavoro è, davvero, l’unica, seria azione di dignità possibile, oggi, in questo campo.

Lo scopo di Marchionne, questo sì vedo lucidamente, è di scardinare un sistema, quello della rigidità delle regole del lavoro, che nei sindacati vede gli strenui difensori, nello Statuto dei Lavoratori (che ha ormai 40 anni) una Bibbia intoccabile; rigidità che in Italia hanno ormai paralizzato il sistema. Quando qualche governo ha provato a metterci mano (v. il famoso art. 18 che era poi una cosa da nulla) apriti cielo. Quando la Cisl apriva qualche spiraglio alle gabbie salariali, botte da orbi, da sindacati e opposizioni varie. Marchionne, fuori dagli schemi e dalle cricche lobbistiche, ci ha provato, col suo fare duro ma che dovremmo considerare positivo, se non fossimo ormai abituati ad un compromesso continuo, al metodo del rinvio, al confondere la logica della responsabilità, con quella della carità (che spesso sono un tutt’uno). Intendo positivo per i risultati, in termini di carità concreta, anche se Marchionne ha forse altre mire. Ma dobbiamo giudicarlo dalle intenzioni o dalle buone maniere?

Alberto RecamiFirenze LA REPLICAFa sempre piacere, a chi scrive, che qualcuno prenda sul serio le sue riflessioni, anche se per criticarle. Perciò ringrazio l’ingegner Recami della sua lettera. Tanto più che, pur nel dissenso,  il suo tono è, a differenza di quel che si vede spesso oggi, assolutamente civile e rispettoso.  È in questo stesso atteggiamento che vorrei rispondergli.

Il mio interlocutore fa appello alla sua esperienza aziendale e, giustamente, osserva che a me questa esperienza manca. Il mio articolo, però non verteva sul merito delle condizioni di lavoro proposte dalla Fiat ai suoi dipendenti, ma sul metodo con cui sono state, a mio avviso, imposte. Su questa critica il mio interlocutore non concorda, per diversi motivi. In primo luogo, secondo lui l’importante è che l’operazione abbia aperto prospettive economiche favorevoli. «Non supererebbe, già questo, ogni problematica?». No, ingegner Recami, non la supererebbe. Se fosse vero – ma su questo dobbiamo ancora tornare – che si è lesa la dignità delle persone, nessun vantaggio economico potrebbe giustificare quello che si è fatto. Questa, almeno, è la dottrina dalla Chiesa, in contrasto con l’opinione diffusa. So bene che oggi – come tante volte in passato – si dimentica quanto il Vangelo vada contro corrente. Ma almeno noi cristiani dovremmo ricordarlo.

In realtà il mio interlocutore non è neanche convinto che sia stata lesa la dignità dei lavoratori. «Perché si parla di minaccia-ricatto? Vogliamo dare un senso reale alle parole? Minaccio se ti induco, da una parte, ad un esito peggiore di quello che ti propongo, dall’altra». Mi permetta, sig. Recami, ma la sua definizione della minaccia  è insostenibile. Perché non prevede il caso che i soggetti in gioco diano valutazioni diverse circa la proposta. Se il suo fruttivendolo, dopo averle offerto delle mele, sostenendo che valgono un prezzo maggiore di quello che lei è disposto a pagare, le prospettasse delle ritorsioni in caso di un suo rifiuto, questa sarebbe una minaccia (anche se, per ipotesi, il venditore avesse ragione). Nel caso della Fiat almeno metà degli operai, a torto o a ragione, non pensava che la proposta di Marchionne fosse conveniente e hanno detto di no. Dico «almeno» perché ci sono anche quelli che, comprensibilmente, hanno preferito cedere piuttosto che perdere il lavoro.

«Ma se a un figlio lazzarone dico: o studi o non ti do più soldi: vai a lavorare, è una minaccia-ricatto o un atto educativo dovuto? Il paragone è forse poco felice, ma ci siamo capiti nella sostanza, non è vero?». Sì, il paragone è poco felice. Lo è talmente da non avere alcun rapporto con ciò di cui parliamo. Gli operai di Mirafiori non sono «un figlio lazzarone». Di lazzaroni tra loro ce ne potranno pure essere, come tra gli industriali, ma l’identificazione è un’offesa gratuita a persone che lavorano duramente per mantenere la propria famiglia e che ogni mese – si è calcolato – guadagnano, per questa fatica quotidiana, 250 volte meno del dott. Marchionne.

Inoltre, il rapporto di lavoro non ha niente a che vedere con quello educativo. Il secondo è per sua natura asimmetrico, perché si educano dei minorenni, mentre i contratti di lavoro si fanno tra persone adulte, che devono trattarsi da pari a pari.

«Oppure», continua il mio interlocutore, «lede la dignità l’aver stabilito che il sindacato che non partecipa all’accordo non è più rappresentativo? Ma ci sono, o no, regole comuni da rispettare in qualsiasi convivenza? Come è possibile che uno che non voglia condividere le regole pretenda, comunque, di far parte del gioco?».  Sì, sig. Recami, ci sono – o meglio, c’erano – regole comuni, stabilite da un contratto nazionale che era il frutto di decenni di negoziati tra lavoratori e datori di lavoro. Il dott. Marchionne lo ha unilateralmente disdetto. Però continua a far parte del gioco, anzi ha deciso lui le nuove regole, escludendo chi non le accettava.

Resta l’argomento, così spesso usato in questa circostanza, della forza maggiore. Come tanti, il mio interlocutore afferma che «la sopravvivenza dell’industria auto in Italia, e ormai di tanti pezzi di quella manifatturiera in genere, è più che minacciata, quasi al tracollo» e ne deduce che quella adottata è «l’unica soluzione veramente concreta e possibile, l’unica che può davvero salvaguardare il lavoro di migliaia e migliaia di persone». Non sono un economista. Ma leggo sul «Corriere della Sera» del 28 gennaio i dati dell’ultimo bilancio Fiat, appena pubblicato: «Il gruppo in attivo per 600 milioni, ricavi su del 12,3%, mentre l’esposizione cala da 4,4 a 2,4 miliardi». E l’amministratore delegato lascia intendere che la Fiat potrebbe acquistare in futuro altre società. Non sembra lo scenario di un tracollo.

Il mio interlocutore obietta che qui non si tratta di condizioni disumane. Come dicevo, non sono entrato nel merito e non ho sostenuto questo. Ma, una volta scardinato il quadro contrattuale nazionale, nelle singole aziende che seguiranno il «metodo Marchionne» si potranno stabilire condizioni concrete molto più gravose per i lavoratori. Sempre, naturalmente, in base all’aureo principio, ribadito dall’ingegner Recami, che qualunque condizione di lavoro non può essere mai «peggio della perdita totale del medesimo».

Detto tutto ciò, vorrei ricordare che l’intento di fondo del mio articolo non era di dare patenti di buoni e di cattivi, ma di chiedere – prima di tutto ai cattolici – una maggiore attenzione alla Dottrina sociale della Chiesa. E sono sicuro che su questo, pur nel dissenso riguardo alle questioni particolari, anche il mio interlocutore sarà d’accordo.

Giuseppe Savagnone