Opinioni & Commenti

«Fine vita»: un principio di libertà nell’orizzonte della relazione umana

di Domenico Delle Foglie

Il 26 marzo scorso, giusto 45 giorni dopo la morte di Eluana Englaro, il Senato della Repubblica ha sancito che nessun altro cittadino italiano potrà mai più morire per fame e per sete in esecuzione del decreto di un magistrato. Vi sembra poco? Noi, sinceramente, traiamo un sospiro di sollievo, dopo aver visto spegnersi la vita di Eluana, e aver temuto che tante altre persone nelle sue stesse condizioni di disabilità estrema, potessero essere condannate alla stessa drammatica sorte.

Il Senato ha infatti approvato il ddl che prende il nome dal relatore, il senatore Raffaele Calabrò. Un disegno di legge (testo dal sito del Senato), è bene ricordarlo, che se non ha ottenuto in sede di voto finale una larga maggioranza trasversale, l’ha invece registrata su singole parti del provvedimento. È il caso, ad esempio, di quei 164 voti che hanno negato la possibilità di rinunciare all’idratazione e all’alimentazione. Nello spirito e nella lettera di questa legge, essi restano semplici sostegni vitali, mai riconducibili a terapie mediche. In coerenza con quel semplicissimo e umanissimo sguardo vitale, non vitalistico, che con occhi limpidi sa riconoscere la scintilla della vita, anche nelle condizioni di massima fragilità. Quando basta pochissimo per vivere: davvero solo il pane e l’acqua. Ma torniamo allo spirito generale di questa legge che sembra improntato a quel «favor vitae» che impregna tutta la nostra Costituzione repubblicana e che non ammette forzature né in direzione dell’eutanasia né verso l’accanimento terapeutico. Questi due estremi trovano in questa legge un forte scudo, a tutela sia della dignità dei cittadini sia del diritto di ciascuno alla cura. Il tutto nell’ottica di un forte principio di eguaglianza, ma anche nella prospettiva dell’alleanza medico paziente che da questa legge esce rafforzata.

Solo uno sguardo miope, che non tenga conto della reale esperienza che i cittadini italiani già sperimentano tangibilmente col proprio medico di famiglia, può immaginare che la non obbligatorietà e la non vincolatività delle dichiarazioni anticipate di trattamento siano una limitazione della libertà individuale. In realtà questa legge ha sposato un principio di libertà ma entro l’orizzonte della relazione umana, riconoscendo a essa un primato rispetto alle derive dell’individualismo che talvolta degenerano nel nichilismo. Questo nuovo equilibrio fra libertà individuale e relazione umana il legislatore lo ha individuato certamente nell’interesse del più fragile, cioè il malato, non certo della classe medica. Alla quale oggi questa legge affida una responsabilità in più: gestire con somma trasparenza e lealtà il cosiddetto consenso informato, perché nessuna possibilità di cura (compresa quella antidolore) venga esclusa con un semplice atto di arroganza intellettuale o di pura negligenza.

Ora questo ddl andrà alla Camera, dove dovrebbe passare, sia pure con qualche annunciata modifica. La speranza è che, rinfoderate da subito le minacce di referendum abrogativi, i chiassosi rappresentanti del partito italiano dell’eutanasia non si inventino qualche forma estrema di protesta, nella quale mettano in pericolo la vita di altri cittadini inermi. Tentando così di farci ripiombare in quell’atmosfera plumbea e priva di speranza che ha segnato le ultime ore di vita di Eluana Englaro.