Firenze
Firenze, l’arcivescovo Gambelli alla Messa del Crisma: “Farci prossimi di chi ha il cuore spezzato”
L'omelia dell'arcivescovo alla Messa del Crisma pronunciata nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore

“La Messa del crisma che celebriamo oggi è la manifestazione della comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. La rinnovazione delle promesse sacerdotali, la consacrazione del crisma e la benedizione degli oli dei catecumeni e degli infermi ci aiutano ad accogliere la grazia di Cristo che ha voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa”, inizia così l’omelia della Messa Crismale pronunciata poco fa dall’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore.
Ecco il testo integrale:
La Messa del crisma che celebriamo oggi è la manifestazione della comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. La rinnovazione delle promesse sacerdotali, la consacrazione del crisma e la benedizione degli oli dei catecumeni e degli infermi ci aiutano ad accogliere la grazia di Cristo che ha voluto che il suo unico sacerdozio fosse perpetuato nella Chiesa.
Le letture della Messa ci invitano a contemplare il Signore Gesù costituito dal Padre con l’unzione dello Spirito Santo come mediatore della nuova ed eterna alleanza. Questa nuova alleanza ha iniziato a compiersi con la prima venuta di Gesù nel mondo e attende il suo definitivo adempimento con il suo ritorno nella gloria.
Possiamo soffermarci su tre aspetti che caratterizzano tale mediazione di Gesù come un dono di misericordia, di accoglienza, di consolazione.
La lettura dell’Apocalisse si presenta una sorta di dialogo liturgico fra colui che legge e l’assemblea che ascolta. Dopo la formula introduttiva di saluto (“Grazia a voi e pace da Gesù Cristo”), l’assemblea risponde con una dossologia in onore del Cristo (“A colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati […] a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.”).
Il lettore riprende allora la parola con un oracolo che ha il compito profetico di attirare l’attenzione sul Cristo risorto nella comunità, nel mondo e nella storia: “Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!”.
Volgere lo sguardo verso colui che è stato trafitto significa prendere coscienza delle conseguenze negative dei nostri errori per accogliere la misericordia di Dio che è sempre più grande del nostro cuore. Manzoni nel capitolo 25 dei Promessi Sposi ci dà un bell’esempio di correzione fraterna, di come possiamo aiutarci a volgere lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto, in quel memorabile dialogo fra il Cardinale Federigo e don Abbondio.
“E quando vi siete presentato alla Chiesa, disse, con accento ancor più grave, Federigo, per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v’ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v’ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina”. Nel capitolo seguente è il Cardinale stesso a chiedere di essere corretto da don Abbondio. Solo chi fa un’esperienza viva della misericordia può essere capace di farsi strumento di pace e di riconciliazione nel mondo.
Nel Vangelo di oggi possiamo notare che l’oracolo profetico di Isaia 61 che Gesù legge presenta alcune differenze rispetto al testo masoretico. Esse si notano soprattutto nell’insistenza da parte del Nuovo Testamento sul tema della libertà, sottolineata per due volte: la liberazione dei prigionieri e la libertà degli oppressi. Gesù censura il riferimento al giorno di vendetta del nostro Dio, per concentrarsi sull’anno di grazia del Signore. Il testo greco parla più precisamente di un anno di accoglienza. L’aggettivo dektòs è lo stesso che si ritrova poco dopo quando Gesù dice: “Nessun profeta è accolto in patria sua”.
L’anno di grazia che Gesù viene a inaugurare è quello in cui i lontani diventano vicini e i vicini si scoprono lontani, capaci cioè di riconoscere che l’elezione e la chiamata di Dio non sono un privilegio, ma una responsabilità per un dono di salvezza da condividere con tutti.
Come ci ricorda il Documento finale del Sinodo: “Una Chiesa sinodale s’impegna a camminare, nei diversi luoghi in cui vive, con i credenti di altre religioni e con le persone di altre convinzioni, condividendo gratuitamente la gioia del Vangelo e accogliendo con gratitudine i loro rispettivi doni: per costruire insieme, da fratelli e sorelle tutti, in spirito di mutuo scambio e aiuto (cfr. GS 40), la giustizia, la fraternità, la pace e il dialogo interreligioso” (DF 123).
La prima lettura è tratta dalla terza parte del profeta Isaia composta molto probabilmente nei primi anni dopo la fine dell’esilio babilonese. Come sappiamo, dopo gli entusiasmi iniziali, coloro che erano rientrati a Gerusalemme vivevano il disincanto e la desolazione. Ad essi il profeta annuncia la venuta di un consolatore che fascerà le piaghe dei cuori spezzati.
In questo anno del Giubileo della speranza siamo invitati a farci prossimi di chi ha il cuore spezzato a essere testimoni della speranza che non delude, a non abbassare le braccia davanti ai problemi e alle sfide del nostro mondo.
Un giorno, mentre due rane saltellavano sull’erba alla ricerca di cibo, incautamente caddero dentro un secchio d’acciaio pieno di latte di mucca. Siccome i bordi del grosso recipiente erano lisci e scivolosi, per quanti sforzi facevano le due rane non riuscivano più ad uscire, per cui non restava altro da fare che nuotare in superficie per cercare di mantenersi a galla. Dopo un po’ di tempo la rana grassa si era stancata e disse all’altra: “Cara sorella, a che serve dimenarsi ancora? Il nostro destino sta per compiersi; annegheremo in questa vasca di latte.” Ma la rana magra la scongiurò di tenere duro: “Aspetta sorella, continua a muoverti, vedrai che prima o poi qualcuno ci tirerà fuori da qui.” Le due rane continuarono a sguazzare nella tinozza di latte per ore, poi, quella più corpulenta disse all’altra: “Sorella, è tutto inutile. Oggi è domenica e nessuno verrà a lavorare. Non abbiamo alcuna possibilità di uscire vive da qui. Siamo condannate – continuando, ormai boccheggiante – sono molto stanca e sto per smettere di nuotare. Mi lascerò annegare!” Ma la rana più esile continuò ad incitarla: “Forza, non ti fermare. Tieniti su, continua a sguazzare nel latte, sono sicura che qualcosa accadrà!” Passarono ancora delle ore e la situazione non era cambiata. La grossa rana era ormai arrivata allo stremo delle forze: “Non ce la faccio più ad andare avanti – disse – e poi, a cosa servirebbe? Affogheremo in ogni modo!” E così si fermò. La rana grassa aveva rinunciato alla vita ed era annegata nel latte. La rana magra invece continuava a muoversi e a sbattere con foga le zampe nel latte. Dopo pochi minuti, sentì di poter camminare su qualcosa di solido. Il latte era stato talmente sbattuto che si era trasformato sotto i suoi piedi, prima in crema e poi in burro. La rana magra poté saltare fuori dal secchio e salvarsi. Aiutaci Signore a tenere fisso lo sguardo su di te che liberi dal laccio il nostro piede, per essere fedeli dispensatori dei tuoi misteri nel mondo e camminare insieme sui sentieri della vita.