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Fra’ Hanna: “Viviamo in una prigione a cielo aperto”

Le parole del parroco della chiesa latina di Beit Jala, risuonano forti e pacate nella sala del Seminario francescano, dove ha incontrato i vescovi toscani giunti in Terra Santa

«Siamo cristiani palestinesi, ma prima ancora siamo parte di un popolo che soffre ogni giorno». Le parole di fra Hanna Mass’ad, parroco della chiesa latina di Beit Jala, risuonano forti e pacate nella sala del Seminario francescano, dove ha incontrato i vescovi toscani giunti in Terra Santa per un pellegrinaggio di vicinanza in un tempo segnato dalla guerra e dall’incertezza.

La sua voce racconta una realtà dura, che tocca da vicino ogni famiglia, ogni casa, ogni comunità. «Dal 7 ottobre 2023 – dice fra Hanna – la nostra vita è completamente bloccata. Il turismo si è fermato, i pellegrini non arrivano più. E senza pellegrini, qui, non c’è lavoro, non ci sono entrate, non c’è speranza di futuro».

Bethlemme vive in gran parte grazie all’accoglienza religiosa, al commercio e all’artigianato legati ai pellegrinaggi. Ma oggi gli hotel sono chiusi, i negozi vuoti, i ristoranti serrati. E chi produce rosari, presepi e crocifissi in legno d’ulivo – simboli da portare nelle valigie dei pellegrini – non riesce più a vendere nulla.

«Ogni giorno – racconta fra Hanna – le persone vengono in parrocchia per chiedere aiuto: per le medicine, per il cibo, per pagare la scuola dei figli o l’università. Grazie al patriarcato, alla Custodia di Terra Santa e alle chiese amiche nel mondo, riusciamo a dare qualcosa. Ma non basta. Le famiglie sono allo stremo».

Oltre alla crisi economica, c’è il peso dell’occupazione militare, che si abbatte sulla vita quotidiana con checkpoint, barriere, permessi negati e viaggi imprevedibili. «Spostarsi da un villaggio all’altro è diventato pericoloso e incerto. Mio fratello lavora a Ramallah: a volte impiega quattro ore per tornare a casa, se non chiudono i cancelli. Ma se li chiudono, non può tornare. E se devi andare in ospedale? È un incubo».

La sua definizione è secca e dolorosa: «Viviamo in una prigione grande. Tutto è controllato. L’esercito israeliano sorveglia le nostre città, i nostri movimenti, le nostre vite. Per entrare a Gerusalemme, io sacerdote, ho bisogno di un permesso. Per studiare, lavorare, curarmi, ho bisogno di un permesso. Non siamo liberi».

La questione cristiana in Terra Santa non è un “problema confessionale”, ma parte integrante della questione palestinese. I cristiani, spiega il parroco, non sono un gruppo separato: sono una componente viva, antica, radicata della società palestinese. Ma rischiano l’emigrazione forzata per motivi economici, psicologici e di sopravvivenza.

«Noi non vogliamo che i cristiani fuggano – sottolinea fra Hanna – vogliamo che restino, che continuino a essere testimoni viventi di Cristo nella sua terra. Ma servono aiuti, attenzione, presenza. Senza pellegrini, senza turismo, senza sostegno, sarà sempre più difficile restare».

E conclude con una nota di speranza: «Il nostro popolo ha fede. Ma ha bisogno di non sentirsi dimenticato. La Terra Santa è viva se chi la abita può vivere con dignità. E se i cristiani restano, restano anche le radici visibili del Vangelo».