Opinioni & Commenti

Francesco, l’uomo che non pone l’io al centro dell’universo

di Elena Giannarelli

Ogni anno la festa di san Francesco il 4 ottobre costituisce un’occasione per meditare sulla straordinaria figura del grandissimo santo, patrono d’Italia, fondatore dell’ordine religioso che da lui prende il nome e che a sua volta ha prodotto altri frutti all’interno della Chiesa. Autore illustre della letteratura italiana delle origini, per quel Cantico di frate Sole, o delle Creature, che è preghiera e invito alla lode del creatore tale da stare alla pari con le più alte invocazioni della antica patristica, il «fraticello di Assisi» è anche figura familiare e presente nella immaginazione di ciascuno di noi, con le sembianze dategli da Giotto e da altri celeberrimi pittori, con i tratti degli attori, grandi e meno grandi, che ne hanno interpretato il difficile ruolo in film di elevato livello o di cassetta, oppure in fiction televisive alcune delle quali francamente da dimenticare.

C’è però un Francesco che più o meno tutti abbiamo imparato a scuola o scoperto per diletto e che forse giace sepolto nella nostra memoria; alcuni possono non averlo mai letto, ma forse lo hanno sentito recitare. È il Francesco della Commedia, nel Canto XI del Paradiso, collocato di fronte a Maria nella rosa dei beati, insieme a san Benedetto e a sant’Agostino, fondatori del monachesimo occidentale. È l’oggetto della lode messa in bocca al domenicano Tommaso, così come l’elogio di san Domenico sarà tessuto dal francescano Bonaventura. Due medaglioni da leggersi insieme, due modi di vivere il cristianesimo capaci non solo di caratterizzare un’epoca, ma di attraversare i secoli e mantenersi attuali. E a proposito di attualità, quale messaggio è possibile cogliere nel Francesco di Dante, che sia utile per l’oggi?

Un tratto colpisce subito il lettore: la potenza di quel personaggio, nella mitezza e nella umiltà che lo contraddistinguono. La Provvidenza, secondo il poeta, ha suscitato due «principi», Francesco e Domenico, che affiancassero la Chiesa, sposa di Cristo: l’uno viene definito «serafico in ardore»: l’altro «per sapienza… di cherubica luce uno splendore».

Nel Francesco assimilato ai serafini si sottolinea l’ardore, un atteggiamento attivo, concreto, forte. Il paesaggio umbro dove egli ha avuto i natali è definito attraverso la fertilità del luogo e la sua scoscesa conformazione, ad est di Perugia, dietro Porta Sole (asprezza che non è sterilità). E proprio un sole nasce con lui, secondo l’Alighieri che gioca su tutta una serie di significati simbolici propri delle fonti francescane. Nel prologo della Legenda maior di san Bonaventura Francesco è identificato con l’angelo dell’Apocalisse che porta con sé il «segno del Dio vivo» e che procede «ascendens ab ortu solis», salendo dall’oriente, ossia dal sorgere del sole. Il poeta invita chi vuol parlare del luogo natale del santo a chiamarlo Oriente, non Ascesi. Quest’ultimo è il nome allora usato per Assisi; si riconnette al verbo ascendere, in latino «salire» e può evocare anche alla lontana il tema dell’ascesi, dell’esercizio della volontà di progredire nel difficile cammino dell’essere veramente cristiani. Il sole è da sempre immagine di Cristo e quindi Francesco diventa, secondo alcuni commentatori in modo sfumato, secondo altri in modo molto più stringente, imitatore del Signore, quasi un secondo Cristo, che viene in terra a interpretarne il messaggio e a rilanciarlo con forza.Il nucleo centrale della poesia dantesca è nell’amore, nelle nozze mistiche fra Francesco e la Povertà. In questo rapporto si inscrive la vicenda umana del giovane assisiate, il suo conflitto con il padre, Pietro Bernardone, arricchitosi con il commercio delle stoffe, incapace di comprendere il rifiuto delle ricchezze da parte del figlio. La prima manifestazione di santità in Francesco è la lotta con il padre, vissuta in nome della Povertà: «ché per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse, a cui, come a la morte / la porta del piacer nessun disserra». Agisce in modo diverso dagli altri: si mette contro il padre per quella sposa alla quale, come alla morte, nessuno apre la porta con piacere. Il santo agisce nell’ottica evangelica. «Chi ama suo padre o sua madre più di me non è degno di me», dice il Signore; inoltre la povertà è lo stato di chi pone le cose materiali in sottordine rispetto a quelle spirituali. Francesco «corre» a fare tutto questo. Il verbo è indicativo della scelta impellente, dello slancio con cui è necessario rovesciare i valori tradizionali. Ed il poeta afferma che è il secondo a fare tutto questo: il primo a sposare la Povertà è stato Cristo, sulla croce; poi essa è rimasta sola e negletta per più di mille e cento anni, fino al frate di Assisi. Con questa scelta egli fonda un modo di vivere, dà un esempio trascinante: «tanto che il venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e correndo gli parve essere tardo/. Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro /dietro allo sposo, sì la sposa piace».

Anche in questo caso «correre» è la risposta immediata ad un paradigma coinvolgente; «scalzarsi» significa togliersi i calzari, andare a piedi scalzi su quell’humus, terra, che è etimologicamente alla base del concetto di umiltà. Non a caso «umile» è per Dante il «capestro», il cordone, che cinge la famiglia dei seguaci, di cui Francesco è «padre e maestro».

Il santo di Assisi non è solo questo: è la dignità regale, con la quale presenta al papa Innocenzo III la ferma intenzione di vivere una vita dura («ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzo aperse»); è il coraggio con cui ,«per la sete di martirio», predica Cristo «alla presenza del Soldan superba» (nel latino cristiano superbus è l’aggettivo che connota Satana). E’ la forza con cui accetta le stigmate a La Verna («il crudo sasso intra Tevero ed Arno») e l’aggettivo «crudo» rispecchia lo scoscendimento della montagna e il dolore indicibile delle piaghe di Cristo. Anche in morte domina la Povertà, che egli raccomanda e lascia in eredità ai suoi frati perché la amino. Ed è dal grembo della Povertà stessa che la sua anima volle muoversi, tornando al cielo e rifiutando ogni altra bara per il suo corpo.

Scelta radicale, certo, quella di Francesco: una scelta forte, che ci ricorda come essere cristiani sia appartenere non ad una religione di roselline e fiorellini, di immaginette edulcorate, ma ad un credo che richiede forza, abbandono alla volontà di Dio. E che soprattutto impegna a rinnovare coerentemente ogni giorno la scelta fatta. La povertà del santo può essere tradotta oggi nell’abbandono del superfluo, nel valorizzare quello che uno ha, nel condividerlo con gli altri, nel ricercare i valori veri e non l’esteriorità, l’autenticità interiore e non la bella immagine. Francesco è l’uomo che non pone l’io al centro dell’universo, ma si sente creatura fra le creature; è colui che chiama sorella e madre la terra, fratelli il sole, il fuoco e il vento, sorelle l’acqua, la luna e la morte. Una grande sfida, la sua, che solo un grande santo ha saputo raccogliere e realizzare con l’aiuto di Dio? Certo, Francesco è un unicum, ma la sua festa viene a ricordare a ciascuno di noi il difficile impegno dell’essere quotidianamente cristiani e, nella consapevolezza di essere fatti di quella terra (humus) alla quale tutti dobbiamo tornare, la grande letizia che viene dal lodare, ringraziare e servire il Signore «cum grande humilitate», consapevoli di quello che siamo, ma anche di quello che, dopo Cristo, siamo chiamati a diventare.