Sport

Giancarlo Antognoni, quarant’anni da campione del mondo

A Firenze Giancarlo Antognoni è ancora oggi l’«unico 10». A testimonianza del legame indissolubile con la città, dove è rimasto a vivere, e con i colori viola della Fiorentina. Il calciatore che «giocava guardando le stelle» ha legato la sua straordinaria carriera anche all’azzurro della Nazionale disputando 73 partite, impreziosite da 7 reti. Con l’Italia ha partecipato a un Europeo e due Mondiali, compreso il trionfo di Spagna nel 1982. Domenica 11 luglio, al «Santiago Bernabeu», l’Italia del Ct Bearzot superò per 3-1 la Germania Ovest, laureandosi campione del mondo per la terza volta nella sua storia. Si avvicina il quarantesimo anniversario dalla notte magica di Madrid. Riviviamo quell’impresa attraverso la voce di Giancarlo Antognoni, tra gli splendidi protagonisti di quella memorabile cavalcata.

Partiamo dall’epilogo, per lei un po’ amaro. In semifinale con la Polonia, l’assist per il vantaggio di Rossi, prima del fallo di Matysik che le costò la finale. «Quella volta mi girarono parecchio le scatole, la vidi dalla tribuna stampa» – disse qualche anno fa. La considera ancora la delusione più grande della sua carriera?«Fu sicuramente una delusione immensa, ma non c’è solo quella. Ricordo l’ultima partita con la Fiorentina a Cagliari, sempre nell’82. Nel giro di due mesi ho subito due brutte situazioni in fila. Una finita positivamente, perché vincendo il mondiale ti dimentichi di quello che è successo in precedenza. Mentre con la Fiorentina rimangono ancora il rimpianto e il rammarico di non aver potuto conquistare lo scudetto con “la Viola” in quel frangente». Mi ha anticipato: sono passati 40 anni anche da quel 16 maggio 1982. Il giorno dello scudetto sfumato all’ultima giornata a Cagliari, a beneficio della Juventus. Come fu pochi giorni dopo ritrovare i tanti calciatori bianconeri nel ritiro della nazionale?«Ci prendevamo un po’ in giro, con Gentile soprattutto. Loro chiaramente avevano vinto e ci dicevano di scordarci quello scudetto che ormai era loro. Tutto in un clima abbastanza goliardico, ma ciò non toglie il dispiacere per l’esito finale di quel campionato. Forse con la tecnologia di oggi potevamo stare più tranquilli. All’epoca, non avendola, non c’era la possibilità di comprovare l’esistenza del nostro goal – che era valido secondo me. Una volta ricordato, finiva lì. Anche perché non potevi permetterti di portarlo dietro più di tanto. È vero che non avevamo giocato una bella partita a Cagliari, ma finire con uno spareggio forse sarebbe stata la modalità più corretta per assegnare quel campionato». Un episodio arbitrale che a distanza di 40 anni ancora fa discutere a Firenze. Al mondiale invece le fu annullato un goal al Brasile, per un fuorigioco rivelatosi inesistente. Le capita di pensare a come sarebbe cambiata la sua carriera con l’ausilio del Var?«Con il mezzo tecnologico a disposizione, sarei andato a letto più tranquillo. In quell’anno, davvero movimentato, mi è successo di tutto, in senso sia positivo che negativo. Il 22 novembre 1981 ho avuto anche l’infortunio alla testa dopo lo scontro col portiere del Genoa, Silvano Martina. Se con la Fiorentina avessimo ottenuto quello che meritavamo, la mia carriera poteva essere un po’ diversa. Pur brillante che sia stata, certo non mi lamento. Non vincere quello scudetto a Firenze e non giocare la finale di un campionato del mondo sono episodi rilevanti, mi hanno frenato sotto l’aspetto professionale. Nella foto della finale non ci sono e questo dispiace».

L’avvicinamento al mondiale non fu certo vissuto in un clima sereno. La scelta di Bearzot che preferì Rossi a Pruzzo, capocannoniere del campionato, generò aspre polemiche che convinsero il Ct a optare per il silenzio stampa. Eppure ebbe ragione lui nel puntare su Pablito in Spagna…

«Le scelte vengono sempre criticate. In effetti iniziammo male il mondiale, nelle prime tre partite non giocammo da Italia. Le polemiche c’erano, qualche scelta non era stata digerita dalla stampa e dagli stessi giocatori esclusi. Il risultato finale ha condizionato il giudizio e tutte queste vicende sono poi passate in secondo piano. Il silenzio stampa fu adottato non tanto per le critiche, ma a causa di alcuni pettegolezzi che circolavano riguardo ad alcuni calciatori. Non erano piacevoli e ci convinsero a rimanere in silenzio, a eccezione di Bearzot e del capitano, Dino Zoff. Il gruppo era compatto, eravamo quelli del mondiale ’78, tranne per alcuni elementi. Bruno Conti al posto di Causio e pochi altri. Bearzot scelse di credere nel gruppo, più che nei singoli giocatori. Quattro anni più tardi avevamo tutti maggiore esperienza: Rossi, Cabrini, Tardelli e anch’io. Nel ’78 ero ventiquattrenne, in Spagna ne avevo 28. La scelta poi si rivelò vincente».

Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi Antognoni, Graziani con un giovanissimo Bergomi che giocò la finale. Spagna 1982 è ancora sinonimo di quell’indimenticabile formazione. Un gruppo davvero speciale. Che legame si è creato tra voi protagonisti del «Mundial»? Vi ritroverete per l’occasione?«Ancora oggi ci confrontiamo via social. Ci siamo già ritrovati quest’anno, per alcune celebrazioni legate al quarantennale e per alcuni eventi importanti ai quali hanno partecipato diversi di noi. Ogni tanto ci ricompattiamo in queste occasioni e ci teniamo in contatto tramite il nostro gruppo “Campioni del mondo del 1982”. Abbiamo questa nostra chat di riferimento con la quale messaggiamo tra di noi». E nel ricordo di «Pablito» Rossi, scomparso il 9 dicembre 2020. Come sarà vivere questo importante anniversario senza di lui?«Sono state molte, purtroppo, le scomparse nel nostro gruppo. A parte Gaetano Scirea e Paolo che se ne sono andati troppo giovani, lo stesso Bearzot, Cesare Maldini (vice allenatore), Memo Trevisan, il dottor Fini, Guido Vantaggiato… Sono tanti i personaggi da ricordare, insieme ai due calciatori, e lo facciamo in ogni occasione utile, in giro per l’Italia. Paolo, in particolare, fu determinante per alzare al cielo quella coppa. Fu il capocannoniere del mondiale e con i suoi goal riuscì a portarci sul tetto del mondo. Bearzot volle portarlo e ha sempre continuato ad avere fiducia in lui, nonostante non avesse segnato nelle prime quattro partite. Iniziò col Brasile e da lì non si è più fermato. Per fortuna non venne meno al proprio credo». Fu Vladimiro Caminiti sulle colonne di Tuttosport a definirla «uomo che gioca guardando le stelle». Era all’indomani del suo esordio con la Fiorentina, a Verona il 15 ottobre 1972. Cinquant’anni anni dopo, se alza lo sguardo cosa vede alle sue spalle?«Rimane aver vissuto una vita straordinaria, facendo quello che mi è sempre piaciuto. Ho conquistato una città e ancora oggi me la godo. Il fatto di aver compiuto certe scelte, mi permette adesso di raccogliere i frutti di quello che ho seminato. Al netto degli errori o dei rimpianti, ho sempre agito con correttezza. Questo fa sì che ogni giorno riceva attestati di simpatia, quando vado a giro per Firenze. La scelta che ho fatto è stata sicuramente positiva, nonostante non abbia vinto niente con la Fiorentina. Me ne dispiace, ma non occorre ricordare nuovamente quello che accadde in quella stagione 1981/82. La gratitudine e l’affetto di un’intera città non hanno prezzo». Concludiamo rivolgendo lo sguardo al futuro: c’è ancora spazio per Antognoni nel mondo del calcio?«Sono rimasto un po’ deluso da quanto è successo. Seguo sempre il calcio, a ogni livello, però c’è un po’ di rammarico per non essere più all’interno della Fiorentina. Non è dipeso esclusivamente da me, ma le scelte le ho fatte sempre con la mia testa. A volte sbagliando, per carità. È come quando si calcia un rigore: se non li tiri, non li sbagli mai. Li ho anche sbagliati, ma sono responsabilità che mi sono sempre assunto. Meriti invece pochi, perché segnarlo è normale, mentre se lo sbagli passi per “bischero”. Lo stesso vale per le scelte nella vita, fino alle fine le farò con la mia testa. Il calcio è cambiato, più che altro i personaggi che lo abitano. Forse mi sono trovato un po’ a disagio, ma è sempre un ambiente nel quale ho trascorso tutta la mia vita. L’obiettivo è sempre dare il proprio contributo, poi è normale commettere degli errori. Li fanno anche gli altri, anche chi pensa di capire di calcio e vi è appena arrivato. Sono cinquant’anni che ci sono dentro e ancora sento di dover imparare».