Opinioni & Commenti

I cinquant’anni di «Avvenire»: la voce forte di una Chiesa unita

Da mezzo secolo, ed esattamente dal 4 dicembre 1968, il quotidiano «Avvenire» è «un riferimento riconoscibile e irrinunciabile» (sono parole del presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti) per la comunità ecclesiale nazionale. Soprattutto per il ruolo che la «Chiesa di tutti e in particolare la Chiesa dei poveri» sotto la guida creativa di Papa Francesco è chiamata ad assumere nell’attuale «epoca di cambiamento».

Un attestato importante, che risponde ad alcune domande che molti si sono posti in questi mesi di festeggiamenti e riflessione. In un contesto sociale radicalmente diverso da quello in cui è nato, cos’è oggi «Avvenire»? È stato pari alle attese del suo lungimirante Padre fondatore, Paolo VI oggi Santo? Ha contribuito a formare la coscienza dei credenti? Ha dato nuova voce ai cattolici italiani? Sì, credo che nell’attuale scenario comunicativo in cui imperversano i social spesso generatori di fake news, il giornale abbia tenuto e riesca a tenere ancora vivo il dibattito nelle parrocchie e nelle diocesi senza intaccare l’obiettivo dell’unità, come pure a dialogare con la società senza venir mai meno alla sua chiara identità.

Sono tempi difficili, ma lo erano anche e ancor più quelli di Montini. Forse è bene ricordarlo. Il filo della memoria e l’esperienza diretta vissuta in una redazione di periferia (Firenze) mi portano a rammentare che, nonostante il diffondersi dei fermenti innovativi del Concilio Vaticano II, Paolo VI dovette vincere le resistenze di larghi settori dell’episcopato italiano per portare in porto – in pieno Sessantotto – la fusione tra due importanti e gloriose testate preesistenti, «L’Italia», edito a Milano, e «L’Avvenire d’Italia», pubblicato a Bologna. Solo un’unica voce avrebbe potuto sperare di evangelizzare, educare e uniformare il mondo cattolico italiano, in quegli anni fragorosamente scosso da fenomeni di dissenso e contestazione (ne sanno qualcosa i toscani ed in particolar modo i fiorentini, toccati dalla lacerante vicenda dell’Isolotto) che riuscirono perfino a lambire la stessa autorità del Pontefice.

«La voce forte di una Chiesa unita»: questo avrebbe dovuto diventare «Avvenire» nelle intenzioni del Pontefice, per affrontare le incalzanti sfide della modernità e adempiere al proprio essenziale compito missionario di annunciare instancabilmente la Verità. Questo, nel pensiero del Papa, era anche il vero significato del termine «dialogo», troppo spesso soggetto a malintese interpretazioni. E chi, se non i media, potevano essere palestra di confronto? Lo sapeva bene Montini: aveva la passione della cultura e dell’informazione; figlio di un giornalista, suo padre era il direttore di un giornale, ma lui stesso scriveva, sui periodici cattolici e soprattutto della Fuci.

Nei primi dieci anni di vita sotto la direzione di Angelo Narducci il quotidiano – sviluppatosi nel frattempo anche al Sud con la teletrasmissione delle pagine al Centro di stampa di Pompei – ha svolto  una vera e propria funzione di «controinformazione», mentre la grande stampa italiana dava solo rilievo a tutto ciò che poteva danneggiare la Chiesa, l’immagine dei Vescovi e del Papa. Narducci aveva un filo diretto privilegiato con i tre maggiori collaboratori del Santo Padre: il segretario particolare monsignor Pasquale Macchi, l’allora Sostituto alla Segreteria di Stato monsignor Giovanni Benelli, poi diventato Cardinale arcivescovo di Firenze;  e un altro fiorentino, monsignor Enrico Bartoletti, arcivescovo di Lucca e segretario generale della Cei dal 1972 al 1976. Questo spiega il ruolo determinante della Chiese in Toscana nella nascita e crescita del quotidiano cattolico, che proprio nella nostra regione ha avuto la più ampia articolazione – le edizioni di Firenze, Prato, Lucca – nel progetto affidato dai Vescovi italiani a manager laici dal 1978 sotto la tutela di monsignor Ersilio Tonini, poi fatto Cardinale.

Con la morte in successione cronologica di Bartoletti, Montini e Benelli sono cambiate le gerarchie vaticane ed anche le strategie. Nel 1983 chiudono le redazioni locali. Nel succedersi dei direttori non si è comunque attenuata la spinta propulsiva, «Avvenire» è ulteriormente lievitato sul piano dei contenuti. Ha assunto il respiro di un vero e proprio giornale nazionale moderno con un orizzonte universale:  pagine e inserti speciali, dossier particolarmente curati, la Terza Pagina che in seguito si caratterizza diventando Agorà. Non ha più l’assillo di dedicare grande spazio alle Chiese locali, perché il servizio pastorale nelle «periferie» viene svolto da tante testate come «Toscana Oggi»; questa con un fascicolo regionale comune di sedici pagine e quello diocesano di otto, contro le due pagine (una diocesana più una pagina regionale) inserite nel quotidiano cattolico prima dell’83.

La formula del giornale unico ha consentito ad «Avvenire» di reggere a testa alta il confronto nel panorama della carta stampata e di conservare le stesse copie che aveva nel 1968, mentre la diffusione dei maggiori quotidiani italiani si è ridotta ad un terzo.

Dunque avanti con la «complementarietà», modello vincente. Se «Avvenire» è lo strumento più attrezzato per radicare nei lettori la visione cristiana della vita aiutando i cattolici a dare una forma culturale alla fede, i settimanali diocesani hanno la missione specifica di abitare le periferie, essere voce dei territori e degli ultimi, costruire ponti di ascolto e dialogo. Senza rinunciare ad essere essi stessi, sempre più e particolarmente oggi, veicoli sistematici e continuativi di quell’antropologia cristiana che è anche profondamente umana.