Toscana

Il lavoro degli stranieri

Superano le 187mila unità, operano al Nord (Emilia Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Toscana e Lazio) e, in prevalenza nell’artigianato. Sono questi i numeri dell’imprenditoria extracomunitaria in Italia, spiegate nel dossier Caritas Migrantes 2009.

L’impresa tipo, come detto, è artigianale: con oltre 90mila aziende, rappresenta il 51% di tutte le attività degli immigrati. I più intraprendenti sono i marocchini, seguiti da romeni, cinesi ed albanesi. Quanto ai settori di attività la palma d’oro va alle costruzioni, seguite a stretto giro dal commercio e dalla riparazioni. Gli immigrati poi sono sempre più specializzati e si spartiscono i settori a seconda dell’etnia. Se i romeni continuano ad andare forte nel comparto edile, in quello commerciale primeggiano gli africani e gli asiatici. Il contributo delle casse dell’Inps è di 7 miliardi di euro, mentre la stima del gettito fiscale è di oltre 3,2 miliardi di euro.

Le ragioni dell’impegno imprenditoriale degli immigratiSono diversi i motivi che hanno spinto gli immigrati alla scelta di natura imprenditoriale.

Diverse indagini hanno posto in evidenza che il livello di istruzione degli imprenditori stranieri si pone al di sopra di quello dei lavoratori dipendenti immigrati, peraltro tutt’altro che trascurabile. Considerate le difficoltà per far riconoscere i titoli conseguiti all’estero, essi si adoperano per valorizzare nel concreto il loro elevato livello di formazione e le capacità che non possono esprimere nei lavori più umili che affidiamo loro.

Vogliono guadagnare di più, perché come lavoratori dipendenti mediamente percepiscono il 60% del salario corrisposto agli italiani, mentre dagli archivi previdenziali risulta che il lavoro autonomo si colloca a un livello più elevato e consente di avere più tempo libero per occuparsi della famiglia e dei propri interessi.

Alcuni di loro già in patria hanno lavorato come artigiani, piccoli imprenditori o liberi professionisti e possono così valorizzare le competenze acquisite.

Diversi, tra gli imprenditori che operano nel commercio, possono esprimere una «sensibilità etnica» in quanto commerciano prodotti tradizionali del Paese di origine, che aiutano a mantenere vivi i legami di appartenenza.

Tra i nordafricani, come anche tra i senegalesi, la vocazione commerciale è in prevalenza maschile, così come lo è tra i pakistani, i bengalesi e i cinesi, mentre la presenza imprenditoriale di altre collettività si tinge più spesso di rosa. In media solo un sesto di queste imprese ha come titolare le donne, che invece costituiscono la metà della popolazione immigrata.

I numeri degli immigrati imprenditoriIl settore maggiormente privilegiato dagli imprenditori immigrati è quello dell’industria e al suo interno prevale di gran lunga il comparto edile, seguito a distanza dal comparto tessile, abbigliamento e calzature, nel quale si sono posti in evidenza i cinesi.

È differenziato il protagonismo delle diverse collettività, tra le quali si riscontra una maggiore o minore propensione, come attestano l’esempio dei marocchini, che detengono un sesto di tutte le iniziative e quello dei filippini che hanno, all’opposto, poche imprese.

Le imprese create da cittadini comunitari erano appena 1.000 nel 1998 e a dieci anni di distanza sono diventate 31.000. Questo è avvenuto specialmente a seguito dell’allargamento a Est, che ha favorito anche i flussi imprenditoriali in senso inverso, tanto che Timisoara, regione romena confinante con l’Ungheria e la Serbia, viene considerata l’ottava provincia del Veneto per il gran numero di aziende che vi operano.

Tra le grandi collettività, il Marocco è maggiormente dedito al commercio e la Romania, come l’Albania, all’edilizia, mentre la Cina si ripartisce tra l’industria manifatturiera e il commercio.

I benefici dal lavoro e dall’imprenditoria degli immigratiI benefici, che gli immigrati con il loro lavoro assicurano al Paese che li ha accolti, sono di natura occupazionale, economica, previdenziale. A livello occupazionale l’impresa non rappresenta solo la via dell’autoccupazione del titolare, ma serve anche a dare lavoro ad altri, in misura maggiore o minore a seconda del tipo d’impresa.

A livello economico bisogna tenere conto che la presenza lavorativa degli immigrati contribuisce alla formazione di circa un decimo del Prodotto Interno Lordo.

Uno studio di Unioncamere e dell’Istituto Tagliacarne, utilizzando dati relativi al 2006, ha accertato che è dovuto agli immigrati il 9,2% del valore aggiunto, corrispondente a una quota di 122 miliardi del Pil. Si tratta di un’incidenza superiore rispetto a quella che gli immigrati hanno sulla popolazione residente e ciò si giustifica per il fatto che essi hanno un tasso di attività più elevato rispetto agli italiani.

A livello previdenziale, poi, non va dimenticato che l’Inps ha accertato che gli immigrati assicurano annualmente un ammontare di 7 miliardi di euro come contributi previdenziali, mentre come risaputo sono minimali percettori di prestazioni pensionistiche in considerazione della loro giovane età.

Le buone pratiche per incentivare l’imprenditoriaInnanzi tutto è indispensabile precisare che se le politiche di integrazione diventeranno più incisive (per quanto riguarda le procedure d’inserimento, la casa, la lingua, la burocrazia, le incentivazioni) il numero di queste imprese è destinato a crescere notevolmente, perché è il clima generale a favorire la voglia e la capacità degli immigrati di fare impresa e a soddisfare la loro esigenza di inserimento dignitoso come nuovi cittadini.

Il sistema bancario ha iniziato a capire l’importanza dovuta a questa quota crescente di clienti e ha dato luogo a molteplici iniziative, per cui oggi due ogni tre adulti immigrati hanno il conto in banca e si avvalgono anche di altri strumenti bancari, ma si rendono necessari ulteriori passi in avanti per pervenire a strategie più inclusive, specialmente per quanto riguarda la concessione del credito.

Invece, la burocrazia è un fattore che frena fortemente lo sviluppo imprenditoriale. Per aprire un’attività autonoma sono necessarie un paio di settimane.

Non a caso l’Italia è stata classificata verso circa il 60esimo posto nella graduatoria mondiale della facilità con sui si apre un’azienda.

Secondo indagini condotte da Confartigianato e Confederazione Nazionale Artigianato (Cna), l’avvio e la gestione delle attività ha un costo di circa 15 miliardi di euro l’anno, mentre, se si riuscirà a ridurre queste lungaggini, la produttività potrà aumentare di almeno il 2%.

Per porre rimedio a questa pesante situazione, dal mese di agosto 2008 si può utilizzare sul territorio italiano un modello informatico unificato riguardante quattro uffici (Registro delle imprese, Inail, Inps, Agenzia delle entrate).

Un altro obiettivo consiste nel proporre un maggiore sostegno finanziario all’imprenditoria sociale, che gli immigrati sono capaci di svolgere a sostegno dei loro connazionali dando un contributo valido alle politiche di accoglienza. Anche collettività che non mostrano una spiccata propensione a impegnarsi in altri settori, lo farebbero per gestire servizi a favore dei connazionali. Non conta solo la fase dell’avvio, ma anche quella della gestione quotidiana per la quale gli immigrati hanno bisogno di informazione, assistenza, sostegno: questi sono i compiti propri delle organizzazioni professionali, delle strutture creditizie e degli Enti Locali.

L’imprenditoria immigrata può essere di grande aiuto anche per sostenere i paesi di origine. Nei paesi emergenti nel 2007 sono pervenuti circa 250 miliardi di dollari risparmiati dagli immigrati e dall’Italia 6 miliardi di euro (dati della Banca d’Italia).

Queste somme, se sostenute da adeguate politiche, possono costituire una speranza per il futuro: gli imprenditori immigrati sono una pedina importante in questa strategia perché possono diventare agenti transnazionali per lo sviluppo, sia con le loro attività sul posto sia con l’imprenditoria di ritorno. Recentemente Caritas Italiana, con il progetto “Welcome Again: Return Migrants” ha provato con i fatti che lo stesso rientro dei migranti irregolari non necessariamente è destinato al fallimento e con i fondi del progetto ha dato l’avvio a 36 imprese, creando così occupazione sul posto.

LA NORMATIVA: I requisiti dell’alloggio per il ricongiungimento familiareIl Ministero dell’Interno con la circolare n. 7170 dello scorso 18 novembre 2009 ha fornito i necessari chiarimenti sui requisiti dell’alloggio richiesti per le procedure di ricongiungimento familiare, alla luce delle modifiche introdotte dalla legge n. 94/2009.

Il nuovo testo dell’art. 29, comma 3, del T.U. immigrazione, in vigore dall’8 agosto 2009, dispone infatti che «lo straniero che richiede il ricongiungimento deve dimostrare la disponibilità di un alloggio conforme ai requisiti igienico-sanitari, nonché di idoneità abitativa, accertati dai competenti uffici comunali».

Secondo la nuova formulazione dell’articolo 29 citato quindi la certificazione igienico-sanitaria rilasciata dalle Asl non è più alternativa al certificato rilasciato dal Comune, ma gli stessi competenti uffici comunali dovranno procedere a tale verifica.

Inoltre è stato soppresso ogni riferimento ai parametri della legge regionale per l’edilizia residenziale pubblica.

I Comuni, chiamati a rilasciare il certificato di idoneità abitativa secondo i nuovi criteri introdotti, hanno fino ad oggi incontrato non poche difficoltà nell’affrontare la situazione: alcuni enti locali chiedevano la certificazione riguardante l’agibilità, l’idoneità degli impianti, eccetera, mentre altri mantenevano i parametri di riferimento alla legge regionale.

La circolare ministeriale ha specificato che la certificazione relativa all’idoneità abitativa potrà fare riferimento alla normativa contenuta nel decreto ministeriale del 5 luglio 1975 che stabilisce i requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione e precisa anche i requisiti minimi di superficie degli alloggi, in relazione al numero previsto degli occupanti.

Al fine quindi di assicurare una interpretazione omogenea su tutto il territorio nazionale la nuova tabella di riferimento sarà la seguente:Superficie per abitante1 abitante – 14 mq2 abitanti – 28 mq3 abitanti – 42 mq4 abitanti – 56 mqper ogni abitante successivo +10 mq