Cultura & Società

Il miracolo della vita nella terra della morte

di Andrea Fagioli

Sono passati 36 anni da quel 10 luglio 1976 quando all’ora di pranzo una nube tossica si sprigionò dalla Icmesa, azienda chimica non lontana da Milano, nella bassa Brianza: «la fabbrica dei profumi», come la chiamavano gli abitanti della zona e gli oltre 170 dipendenti. Una nube carica di diossina, il peggiore dei veleni, che in un caldo sabato d’estate sconvolse la vita agli abitanti di undici comuni lombardi tra cui Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno, dando origine al più grave disastro ambientale mai capitato in Italia. Non vi furono morti, ma centinaia di persone vennero colpite da cloracne.

Quale reale produzione si nascondesse dietro «la fabbrica dei profumi» non è mai stato appurato con certezza. Certo è che la diossina, sostanza ustionante e cancerogena, veniva usata in Vietnam per le bombe al napalm. E non conoscendo esattamente gli effetti del micidiale «Tcdd» sull’organismo umano, nel timore che nascessero bambini malformati, il governo italiano autorizzò (pur senza allora una legge in materia) aborti terapeutici per le donne della zona contaminata che ne avessero fatto richiesta.

Anche Sara, nel testo di Roberto Cavosi Anima errante andato in scena a San Miniato per la Festa del teatro, è una donna di Seveso, felicemente sposata e in dolce attesa. Anzi, quel bambino lo ho fortemente cercato e voluto e adesso non vorrebbe assolutamente rinunciarci. A Seveso muoiono migliaia di capi di bestiame. Adulti e bambini vengono ricoverati in ospedale con gravi forme di cloracne. Il paese viene fatto evacuare. Sara, non ottenendo risposte dalla scienza, si rivolge alla Madonna pregandola di venirle in soccorso. La sua richiesta si fa sempre più assidua e insistente. Sara vorrebbe si compisse un vero e proprio miracolo: vorrebbe che Maria scendesse dal cielo per aiutarla. Tanta è la sua caparbietà che la Vergine non solo acconsente alla sua richiesta, ma le propone uno scambio: «Se il tuo fardello è troppo pesante – le dice –, lo prenderò io e tu prenderai il mio». Sara, pensando che si sarebbe assisa tra gli angeli in trono, accetta lo scambio. Ma la sua felicità dura poco e nei panni di Maria si trova sul Golgota davanti a suo figlio in croce. Ancora davanti ad un figlio che lei non è in grado di difendere.

«Un figlio per un figlio. Una madre per una madre… Mio figlio è tuo figlio. La mia concezione è la tua stessa concezione». Uno scambio bellissimo, una struggente identificazione tra donna e donna, tra madre e madre, una «complicità» tutta al femminile per una risposta positiva all’interrogativo finale: «Possiamo noi donne, noi madri, cambiare tutto questo? Mi sento – dice Sara – la schiena un po’ curva… poco, appena, appena, ma è curva. C’entrerà con la gravidanza?». «Sicuro – risponde l’ombra della ginecologa –. Hai male da altri parti? Hai uno strano sguardo. Dove guardano i tuoi occhi?». «Lontano», risponde Sara. È la risposta della speranza. A dirla è Sara, ma viene da Maria. Entrambe le donne sono finite nelle pieghe della storia. Sarà ci si è trovata. Maria, con il suo «sì», ha deciso di starci come un’«anima errante», con la sua valigia, come Sara e le atre donne di Seveso. Ha generato il Figlio di Dio, ma ha scelto di rimanere figlia del suo figlio. Ha fatto propria la debolezza di Sara per portarla sul Golgota, luogo del sacrificio e della salvezza.

Sia il testo di Cavosi (a cui va anche il merito di aver richiamato l’attenzione su un disastro di cui si avvertono ancora le conseguenze) che la sapiente messa in scena firmata da Carmelo Rifici, conducono il dramma su due elementi: l’impegno civile e l’anelito verso una funzione sacrale del teatro; la cronaca e la spiritualità, con toni realistici e lirici allo stesso tempo. Solo in qualche punto la «fusione» non risulta perfetta: nel modo insistente con cui viene richiesto il miracolo, che appare più come la rivendicazione di un atto dovuto che non la supplica derivante da una fede autentica; nell’inserimento di un personaggio come Pilato, che a differenza di Maria non si fonde con la parte contemporanea del dramma, anche se il monologo è in sè apprezzabilissimo e Francesco Colella, che veste anche i panni di Davide marito di Sara, ne offre un’interpretazione eccellente.

Ma se questi possono essere i limiti, c’è da dire che il testo fila benissimo. Nell’ora e quaranta senza intervallo la tensione è sempre alta, grazie anche all’ottimo cast che anche quest’anno l’Istituto del dramma popolare è riuscito a mettere insieme ricorrendo anche ad una coproduzione che permetterà di portare lo spettacolo al Sacro Monte di Varese e poi in tournée nella stagione invernale con una lunga tappa milanese. In questo cast spicca quella signora del teatro che è Maddalena Crippa, che di Sara (poi Maria) trasmette tutta l’inquietudine ma anche la forza e la tenerezza della madre che invoca il miracolo della vita nella terra della morte. In scena con la Crippa e Colella, altre quattro brave attrici impegnate in più ruoli: Carlotta Viscovo, Raffaella Tagliabue, Stefania Medri e Francesca Mària. Buona, come accennato, la regia di Carmelo Rifici, «vecchia» conoscenza di San Miniato, ottima garanzia per la Festa del teatro. L’allestimento scenico è stato affidato a Daniele Spisa, i costumi a Margherita Baldoni, le luci a Matteo Crespi, gli interventi musicali a Emanuele De Checchi, i contributi video a Vincenzo Genna.

C’era una sola assenza quest’anno a San Miniato: Cristina Rastelli, che per tanti anni ha curato l’ufficio stampa della Festa del teatro. Per i giornalisti era un’«istituzione». Gravi problemi di salute le hanno impedito di essere presente a questa edizione numero 66. Le auguriamo di tornare alla prossima. In bocca al lupo, Cristina.