Opinioni & Commenti

Il «project financing» e la buona amministrazione

di Pier Angelo Mori

Nel Maestro e Margherita di Bulgakov il diavolo avvistato per le strade di Mosca sarebbe secondo alcune testimonianze di bassa statura, secondo altre di statura gigantesca ma, nota l’autore, in realtà non era né basso né gigantesco. Succede così quando si parla di cose mai viste prima: c’è chi le vede in un modo e chi in modo completamente diverso. Pare succedere anche in questi giorni con il project financing, portato alla conoscenza del grande pubblico dalle vicende poco edificanti venute alla luce con le inchieste fiorentine. Dato che oggi se ne parla molto e non sempre a proposito, è bene intanto chiarire di cosa si tratta.

In Italia il nome è entrato nell’uso solo di recente ma lo strumento non è affatto nuovo. Nella sostanza il project financing è l’accordo tra un committente – ad esempio una pubblica amministrazione – che non ha convenienza a produrre in proprio un determinato servizio e un soggetto esecutore – ad esempio un’impresa privata – che si impegna a fornire il servizio, a effettuare gli investimenti necessari e a gestire la produzione per tutta la durata dell’accordo. Lo schema, come si intuisce, può applicarsi alle situazioni più varie, e così è stato nella storia di questo strumento, che a partire dall’800 è stato impiegato per costruire e gestire una grande varietà di infrastrutture, dalle ferrovie alle piattaforme petrolifere off-shore.

Il fulcro di tutta l’operazione sta dunque nella possibilità per il soggetto committente di ottenere un servizio e realizzare gli investimenti necessari senza ricorrere alla propria organizzazione. Tuttavia, ovviamente, alla fine qualcuno deve pagare. Il modo canonico di compensare l’esecutore è attraverso il pagamento di un prezzo concordato per l’erogazione del servizio, ma talvolta, specie in Italia, si assiste anche alla parziale partecipazione del committente agli oneri di investimento. Va dunque sfatata l’idea errata che il project all’amministrazione non costa nulla: in realtà l’amministrazione paga per il progetto o, il che è lo stesso, pagano per essa i cittadini utenti finali del servizio. Nulla si crea dal nulla e questo indubbiamente vale anche per la finanza di progetto.

Perché allora, se un onere c’è comunque, si dovrebbe ricorrere a questo strumento, indubbiamente complesso? La motivazione canonica è che il privato può essere più efficiente e, se lo è, l’onere finale risulta per l’amministrazione minore che se producesse in proprio il servizio. Ma in Italia la vera motivazione per la stragrande maggioranza delle iniziative di questo genere è un’altra. Il Patto europeo di stabilità impone agli enti locali stringenti vincoli finanziari che non consentono, data l’entità del debito pubblico italiano, di attuare investimenti essenziali come scuole, strade, cimiteri, ecc. Per questo si ricorre allo strumento del project financing che, portando fuori bilancio l’investimento, consente di evitare la mannaia del Patto di stabilità.

Le le pubbliche amministrazioni mostrano tanto interesse per lo strumento project financing, com’è attestato dall’esplosione delle iniziative negli ultimi dieci anni, gli imprenditori privati non mostrano meno entusiasmo. I motivi sono però ben diversi. Dagli imprenditori, che in maggioranza sono costruttori edili, il project è visto come una scappatoia al classico appalto sotto cui le opere sono realizzate su progetto dell’amministrazione contro un prezzo determinato da una gara al massimo ribasso. Il project financing è aggiudicato anch’esso mediante gara ma non al massimo ribasso, e questo è un sicuro motivo di interesse per gli imprenditori. Non è tuttavia l’unico. Nel project financing è prevista anche nella fase progettuale un’interazione tra amministrazione e impresa privata che l’imprenditore può piegare a proprio favore negoziando scelte progettuali ad esso più favorevoli, sia sul piano tecnico che economico. Questo ci porta dritti al cuore del problema.

Le amministrazioni pubbliche, anche in assenza di degenerazioni come la corruzione, mediamente sono soggetti deboli rispetto agli imprenditori privati e qualsiasi processo negoziale le vede in posizione di subalternità. Ecco il vero punto di interesse degli imprenditori per il project financing e più in generale per tutte le forme di rapporto che comportano in un modo o nell’altro una negoziazione con l’amministrazione: se poteva esserci qualche dubbio, le intercettazioni telefoniche apparse in questi giorni sui giornali lo hanno spazzato via (uno degli imprenditori intercettati, riferendosi a una iniziativa che lo vedeva coinvolto, dice senza mezze parole: abbiamo fatto quel che ci è parso).

Il project financing è un bene o un male? Di per sé non è né l’uno né l’altro: è solo uno strumento, che funziona a seconda di come viene usato. Per oltre un secolo e in varie parti del mondo ha funzionato bene in una grande varietà di applicazioni, ma può anche funzionare male. Molti segnali indicano che in Italia non funziona bene per tanti motivi, di cui uno dei più rilevanti è la complessità delle procedure. Come dice un detto popolare, la coda del diavolo si annida nei dettagli e il nostro ordinamento prevede per il project procedure estremamente complesse e piuttosto confuse: dunque il luogo ideale per la coda del diavolo, che può assumere varie forme, dal banale errore, all’incapacità di tenere testa ai privati, per finire con le varie forme di degenerazione collusiva.

Si possono pensare diversi accorgimenti per tutelare il pubblico interesse ma la migliore salvaguardia – forse l’unica – è in definitiva la forza dell’amministrazione, intesa come patrimonio di competenze tecniche e di onestà: lo dimostra l’esperienza di grandi paesi come Francia, Germania, Spagna, Gran Bretagna, Usa e altri ancora. E allora la strada principe, invece di demonizzare gli strumenti, che sono neutri, o i privati, che legittimamente perseguono i loro interessi, è potenziare l’amministrazione investendo su di essa.