Opinioni & Commenti

Il ruolo sociale dell’impresa per uscire dal «tunnel»

di Giovanni Pallanti

La crisi economica sembra stia scollinando: dal buio pesto ad un buio meno intenso che preannuncia, forse, un’alba prossima ventura. Nel frattempo sono successe cose paradossali: i venti Paesi più industrializzati del mondo o che hanno delle economie potenzialmente ricche per materie prime e per numero di abitanti (potenziali consumatori) hanno trovato un comune intendimento per frenare la crisi e per rilanciare lo sviluppo economico. È la prima volta che questo avviene nell’ultimo secolo di storia. Nel 1929 le cose non andarono così. Ognuno cercò di uscire dalla crisi economica a suo modo e fu per quasi tutti un disastro. Oggi anche il colosso statunitense invece che rinchiudersi su se stesso, come fece nel ’29, si è aperto all’industria europea e alle tecnologie da essa progettate. Il presidente Obama ha messo come condizione per gli aiuti federali alla Chrysler una condizione sine qua non: l’accordo industriale con la Fiat di Torino (30 aprile 2009).

Fino a pochi anni fa la Fiat sembrava sull’orlo del declino. Poi con l’arrivo dell’amministratore delegato Marchionne si è investito sugli uomini e si sono lanciati nuovi motori a propulsione mista che interessano anche al mercato americano per rilanciare l’industria automobilistica. Tutto questo ha un presupposto: riscoprire la responsabilità sociale dell’impresa con il superamento della visione squisitamente basata sul profitto del padrone o degli azionisti di maggioranza che la gestiscono.

Anche se pochi lo dicono, caduto il sistema statuale marxista (1989) ed entrato in crisi il modello capitalista fondato sul liberismo sfrenato (2008), l’idea della impresa piccola, grande e media come fonte di responsabilità sociale per chi ci lavora, per chi la gestisce, per i prodotti che essa immette nel mercato ha la sua radice principale nel pensiero sociale cattolico.

Negli ultimi trent’anni del ventesimo secolo, sotto l’impulso del Papa Giovanni Paolo II, si è affermata una cultura del lavoro che mette al centro il valore della persona umana. Il pensiero sociale cattolico appartiene alla tradizione della filosofia cosiddetta perenne ed in particolare a Platone, ad Aristotele e agli Stoici e ai successivi filosofi cattolici come Agostino e Tommaso d’Aquino. Questo filone di pensiero è stato combattuto con il sorgere della rivoluzione industriale alla fine del 1700 fino alla crisi che ha investito l’economia globale del 2008.

Oggi nessun imprenditore ben intenzionato può prescindere, nella sua azienda, dal valore della persona umana (manager, tecnico o operaio) e dal giusto guadagno per tutti.

La crisi delle banche e l’incapacità di gestire con criteri sociali l’economia ha portato all’arricchimento di pochi incapaci e arroganti padroni e dei loro più fidi collaboratori determinando un disastro economico che dagli Stati Uniti si è riverberato su tutto il mondo. È saltato il principio della filosofia di origine illuministica e protestante che dietro il contrattualismo sociale nascondeva l’individualismo, il che ha portato a una netta dicotomia tra egoismo e altruismo fino alla insostenibilità di un sistema che si basava solo sulla speculazione e sullo sfruttamento.

Se qualcuno vuole approfondire lo studio del pensiero sociale cattolico si legga un libro di recente pubblicazione, Fondare la responsabilità sociale d’impresa (edito da Città Nuova), a cura di Helen Alford e Francesco Compagnoni, una domenicana e un domenicano, docenti alla Pontificia Università San Tommaso di Roma – Angelicum. In una serie di saggi a cura di professori universitari italiani e stranieri si dimostra la razionalità della cultura imprenditoriale che sta dietro l’economia sociale di mercato e della impresa come fonte di ricchezza per le comunità. Non c’è in questo studio una visione minimalista del pensiero sociale cattolico: si propone, anzi, quanto di più innovativo e rivoluzionario in esso è contenuto. D’ora in poi nessun serio economista potrà continuare a ignorare queste idee.