Cultura & Società

Il Sessantotto cattolico all’ombra del Cupolone

di Antonio Lovascio

Firenze e la Toscana sono state sicuramente le più fertili terre di sperimentazione della rivoluzione avviata dal Concilio Vaticano II. Una svolta che ha lasciato segni profondi nella Chiesa; tanto che la sofferta discussione sui temi dell’etica (condizionata sempre più dal progresso scientifico), dell’autorità del Pontefice e della collegialità episcopale, del celibato sacerdotale, dell’impegno sociale e politico del clero, è ancora oggi – quasi mezzo secolo dopo – di scottante attualità. Il tempo ha aiutato a fare chiarezza su alcuni contenuti conciliari, sul ribaltamento dei costumi, sul «terremoto» ideologico che costituì un dirompente fattore di crisi. Ma il trascorrere degli anni non ha però sanato gli «strappi» così dolorosi e profondi consumati allora, sull’onda della deriva marxista e del materialismo, del rifiuto dell’enciclica «Humanae vitae» di Paolo VI e dell’influsso del cosiddetto Catechismo Olandese. Come è ben tratteggiato nel libro «La preghiera spezzata», che per la prima volta mette a confronto testimonianze dirette e documentazioni inedite, soprattutto interviste ad autorevoli protagonisti di quella stagione controversa. Pubblicato da due scrittori attenti alla vita del mondo ecclesiale toscano e profondi conoscitori di quello politico: Marcello Mancini, giornalista di razza in prima linea da quasi 30 anni, capocronista de «La Nazione»; l’altro – Giovanni Pallanti – uomo politico cattolico di formazione lapiriana, commentatore dello stesso quotidiano e di «Toscana Oggi».

Quella edito dalla LEF di Giannozzo Pucci è un coinvolgente e distaccata ricostruzione dei principali eventi ecclesiali della seconda metà del Novecento fino ai nostri giorni (comprese le vicende diverse di don Cantini e di don Santoro). Una storia che si snoda dal cardinal Dalla Costa a Florit, da Benelli a Piovanelli, da Antonelli a Betori. Una riflessione serena (che si sofferma in particolare sul «caso Isolotto» – esploso in pieno ’68 – e sulla precedente esperienza di don Lorenzo Milani), certamente utile per capire tutti i risvolti di quei tormentati ma altresì  benefici anni Sessanta; per inquadrare le difficoltà incontrate dalla Chiesa, nei decenni successivi,  nell’interpretare ed aggiornare le direttive pastorali dell’ultimo Concilio, per aprirsi e dare certezze ad una società moderna, in continua evoluzione. Difficoltà vissute nonostante la Diocesi fiorentina respirasse gli influssi positivi dello straordinario tessuto culturale e spirituale tracciato, a partire proprio dal 1950, da grandi uomini di fede: il cardinale Elia Dalla Costa, Giorgio La Pira, don Facibeni, monsignor Bartoletti, monsignor Agresti, padre Balducci, don Barsotti, padre Turoldo, don Bensi, padre Santilli, padre Ciolini, e da intellettuali come Giovanni Papini, Piero Bargellini (il sindaco dell’alluvione 1966), Vittore Branca.

Dunque: perché scoppiò il  «caso Isolotto» e soprattutto perché divenne il simbolo della contestazione cattolica in Italia, alimentata da mille comunità di base? Per le incomprensioni e la palese incomunicabilità  tra il cardinale Ermenegildo Florit e la parrocchia di Don Enzo Mazzi, don Sergio Gomiti e don Paolo Caciolli circondati da tanti laici attratti da una democratizzazione collettivista? Non solo. Il loro, era un dissenso pressoché totale con la linea pastorale e la dottrina morale di Papa Montini. L’ho toccato con mano – giovane giornalista appena approdato a Firenze – da un osservatorio privilegiato qual era la redazione fiorentina di «Avvenire». In quegli anni tumultuosi – tra il dicembre ’67 ed il maggio ’70 – Paolo VI scrisse ben sessantanove discorsi sulla contestazione nella Chiesa. E minacciò di chiudere l’Università Cattolica di Milano, frequentata da alcuni leaders della rivolta studentesca. Era amareggiato a tal punto da denunciare «la presenza del fumo di Satana» nel corpo ecclesiale.

Comunque nel libro di Mancini e Pallanti, con nuove rivelazioni che danno spessore alla sua prima, bella e lunga intervista, monsignor Paolo Ristori (segretario particolare di Florit dal 1954 fino alla morte, nel 1985) respinge con vigore le tesi di alcuni critici osservatori: il cardinale, apprezzato biblista, non può essere consegnato alla storia come il normalizzatore che confinò don Lorenzo Milani a Barbiana, né come l’inquisitore che sospese a divinis don Mazzi. «Florit guardava ai suoi sacerdoti con grande affetto, cercando di evitare il venir meno della loro promessa sacerdotale». Il fedele collaboratore del cardinale ci fa rivivere le drammatiche giornate del «caldo» autunno del Sessantotto, scandite dal susseguirsi di «faccia a faccia» dai toni accesi ed ultimativi; da faticose ed alla fine purtroppo inutili mediazioni, confortate però dall’appoggio pubblico di La Pira (con il noto aforisma «Ubi episcopus, ibi Ecclesia»). Pronunciamento che rinsaldò il rapporto tra il cardinale ed il Professore. Al punto che, sette anni dopo (1976) fu proprio Florit a convincere (presenti padre Reginaldo Santilli e Giovanni Pallanti) l’ex sindaco ad accettare la candidatura che consacrò il suo ritorno alla politica attiva, in Parlamento. Svelato questo retroscena con dovizia di particolari, per la prima volta monsignor Ristori parla del carteggio intercorso tra l’arcivescovo e Papa Montini; della segnalazione fatta dal cardinale al Pontefice del francescano padre Umberto Betti e di don Divo Barsotti come possibili suoi Ausiliari; dell’orgoglioso rifiuto dello stesso Florit ad accettare la nomina, pur prestigiosa, a Patriarca di Venezia. Tutto questo accompagnato dal racconto sull’umile silenzio che ha contrassegnato gli ultimi anni della vita del prelato friulano, dopo il ritiro e l’arrivo a Firenze (luglio 1977) di Giovanni Benelli con il compito di ricomporre l’unità ecclesiale. Sono i tratti salienti di una parabola pastorale ed umana ricca di insegnamenti: al di là dei possibili errori di valutazione, che ogni essere umano può compiere, sono in fondo l’essenza del servizio alla Chiesa: «Siamo tutti servi inutili», come dice il Vangelo. Un giudizio, quello su Florit, contestato da don Mazzi e da don Gomiti. Esibendo un nuovo dossier (che riassume i contatti epistolari diretti con il Papa e la Segreteria di Stato), i due ex preti dell’Isolotto sostengono il diverso atteggiamento verso la Comunità tenuto prima dal predecessore card. Dalla Costa, segnato da visite segrete dell’arcivescovo nella parrocchia del periferico quartiere operaio. Ma tutto questo conferma che, 40 anni dopo, le posizioni sui principi dottrinali fondamentali sono purtroppo ancora inconciliabili. Da muro contro muro.

Nel «confronto a più voci» assume un valore storico anche l’ampia lettura retrospettiva offertaci dal «cardinale del dialogo», Silvano Piovanelli. Che ripercorre anche le tappe più significative dei 19 anni del suo intenso ministero pastorale a Firenze. E ricorda con affetto e ammirazione don Milani compagno di seminario, la sua ansiosa ricerca di autenticità, animata dal desiderio di passare da un Cristianesimo di tradizione ad un Cristianesimo di convinzione, orientato all’impegno per le cose che contano. Sulla «frattura» sessantottina, di cui è stato testimone, l’arcivescovo emerito spiega il senso della lettera di «affettuosa vicinanza» inviata il 28 ottobre ’69 a don Mazzi e don Gomiti da «93 sacerdoti fiorentini» (lui, allora parroco a Castelfiorentino, ne fu un autorevole firmatario). Un’iniziativa mossa dal desiderio di evitare che «lo strappo dell’Isolotto non rallentasse il cammino di rinnovamento avviato dal Concilio», per cercare di convincerli «a non ribellarsi al vescovo e a non rompere con la Chiesa: per aiutarla a cambiare bisogna starci dentro»!)

C’è molto Isolotto nel volume di Mancini e Pallanti. Ma nell’intreccio dei sussulti postconciliari c’è un ulteriore approfondimento della figura di Milani e di quello che il suo esempio e il suo tempo ci hanno lasciato. Merito in particolare dell’allievo prediletto di don Lorenzo, Michele Gesualdi. Quello che più di tutti ha sviluppato in modo coerente il messaggio dell’originale esperienza della scuola di Barbiana. Con grande respiro ideale – dopo che certe spigolosità si sono smussate e talune avversioni attenuate – Gesualdi ci rende ancora più limpido e trascinante il profilo umano e sacerdotale di don Lorenzo. Figura arricchita, alla fine del libro, dall’arcivescovo Giuseppe Betori, con un calibrato ma significativo accostamento a don Primo Mazzolari. «La parola profeta è di quelle che mi imbarazzano. Preferisco non usarla, se non per quelli che trovo nelle pagine della Bibbia. Ma posso senz’altro dire che in molte cose don Milani camminava avanti, e questo ha causato in chi lo guardava da lontano incomprensioni e ritardi. Camminava avanti perché era grande nella Fede. Essergli fedeli oggi vuol dire riattingere a quelle radici di fede che hanno prodotto in lui tanto amore per il Vangelo e per i suoi ragazzi». Un’esortazione a riscoprire lo spirito autentico del Concilio e all’ottimismo. Quell’ottimismo trasfuso recentemente, con tanta passione spirituale ed efficacia, dal cardinale Carlo Maria Martini: «Malgrado alcune inevitabili tensioni interne, la Chiesa si presenta oggi unita e compatta, come forse non lo fu mai nella sua storia».

Il dissenso e il segreto di FatimaIl dissenso cattolico è stato definitivamente spazzato via dalla storia – è una convinzione sostenuta nel libro di Marcello Mancini e Giovanni Pallanti – quando, il 13 maggio 1981, Ali Agca sparò, in piazza San Pietro, a Giovanni Paolo II, che aveva combattuto il nazifascismo ed il comunismo. Era il giorno dell’anniversario della prima apparizione della Madonna di Fatima, che nella terza rivelazione, custodita gelosamente dai Pontefici predecessori del Papa polacco, aveva previsto l’attentato a un «vescovo vestito di bianco che cadeva come morto».

Prima di questo attentato, anche qui in Toscana negli anni Sessanta ci sono stati preti e fedeli che erano in netta collisione con quanto la Chiesa riconosceva come vero nelle apparizioni della Madonna di Fatima. «La centralità di Fatima nella storia del Novecento – scrivono Mancini e Pallanti nel volume «La preghiera spezzata» – era cruciale nelle analisi storiche e politiche di un grande sindaco d Firenze, Giorgio La Pira, che profeticamente anticipò quanto la Chiesa universale fece solennemente proprio con l’attentato al Papa del 1981. La Pira era visto dal dissenso cattolico fiorentino come un personaggio strano, come un compagno di strada che fino ad un certo punto poteva essere affidabile. Quando poi la contestazione lambiva la veste bianca dei sommi pontefici, La Pira si irrigidiva e ammoniva che il più grande errore che un cattolico poteva commettere era quello di scendere dalla barca di Pietro». Un monito spesso ripetuto quando è scoppiato il «caso Isolotto».