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Israele e Iran: Trump e il cessate il fuoco, ma la tensione resta alta
Baheli (analista): “I veri negoziati potrebbero iniziare adesso”

Dopo il coup de theatre di Donald Trump che ha annunciato il cessate il fuoco nel conflitto tra Israele-Usa e Iran, la tregua sembra già essere in bilico. Pare che missili iraniani siano arrivati in Israele dopo il cessate il fuoco – ma l’Iran nega – e il ministro israeliano della difesa Israel Katz si è detto pronto a rispondere. Intanto chi sta perdendo il conflitto è sempre la popolazione civile. In Iran le stime vanno dai 430 ai 974 morti e 3500 feriti. In Israele si contano una trentina di morti. Ne abbiamo parlato con Nima Baheli, analista geopolitico ed esperto di Medio Oriente: “Sebbene Israele parlasse di ‘attacchi chirurgici’ a livello mediatico e propagandistico nei fatti i numeri sembrano raccontare un’altra storia”.
La tregua reggerà?
Bisogna capire se ci saranno strascichi o meno e se sarà una tregua effettiva o se riprenderà uno scontro, quantomeno sui vari siti, non da parte degli Stati Uniti ma da parte di Israele e Iran. Entrambe le parti, anche alla luce della risposta iraniana alla base statunitense in Qatar — avvenuta con un preavviso ai qatarioti, che a loro volta hanno avvisato gli americani — fanno capire che, vista la situazione di stallo, sia Israele che Iran avevano interesse a fermarsi, almeno per ora. Probabilmente, per un po’ la tregua durerà. Poi toccherà vedere gli sviluppi interni sia a Tel Aviv che a Teheran. A mio parere questo intervento degli Stati Uniti nel conflitto è stato funzionale, da un punto di vista occidentale, ad interrompere una situazione di stallo che, senza l’intervento statunitense, si sarebbe forse protratta per mesi. Sebbene Israele avesse una superiorità tecnologica, l’Iran stava rispondendo in maniera più o meno adeguata, e senza un intervento esterno probabilmente nessuno dei due sarebbe riuscito a sopraffare l’altro nel breve termine.
Oltre agli obiettivi dichiarati sul nucleare, quali sono le altre finalità del conflitto?
Sul nucleare non sappiamo, ad esempio, quanto sia stato effettivamente distrutto o rallentato il sito di Fordow. Sappiamo, da ciò che si può intuire, che in qualche modo Trump ha “messo il cappello” su questa guerra nata dal nulla, per chiuderla. In questo modo può rivendicare una vittoria, peraltro utile a fronte di una sua base elettorale fortemente critica. Secondo recenti sondaggi fatti negli Stati Uniti, il suo tasso di approvazione era sceso al 41%, il minimo durante il suo mandato. Quindi, in vista anche delle prossime elezioni di Midterm, e considerando una base elettorale molto critica verso gli interventi esterni, ha preferito questo colpo di teatro per presentarsi come pacificatore. Mentre Netanyahu ha aumentato il consenso sia interno che esterno, anche perché, per ora, la questione di Gaza è passata in secondo piano. Con questa campagna Israele ha indebolito il suo avversario regionale. In più ha riottenuto l’appoggio degli alleati europei, che prima di questo conflitto — la Francia, ad esempio — erano molto critici verso la postura israeliana su Gaza. Questo è un vantaggio, quantomeno nel breve e medio termine, che Netanyahu ha ottenuto.
Gli attacchi sono avvenuti completamente al di fuori del diritto internazionale e buona parte degli Stati occidentali ha fatto finta di niente. Prevale la legge del più forte?
Sì, questo dimostra come ormai il diritto del più forte prevalga sul diritto internazionale. Anche l’attacco a tre centri nucleari è qualcosa di estremamente grave: durante il conflitto russo-ucraino, quando si temeva che Putin potesse attaccare la centrale di Zaporizhzhia, ci fu una preoccupazione diffusa. Invece, l’attacco a tre siti nucleari iraniani è stato praticamente accolto nel silenzio. C’è una deregulation in tutti i campi. C’è però un elemento interessante che si può trarre da questa “guerra dei 12 giorni” — così come l’ha battezzata Trump — ed è che il fronte occidentale si è dimostrato coeso nei confronti del proprio alleato, mentre il cosiddetto fronte orientale, quello dei Brics, o comunque di Russia e Cina, si è rivelato, a parte sostegni verbali, piuttosto inconsistente. E questo è un insegnamento che forse i Paesi terzi possono trarre da questo conflitto.
Forse anche perché c’è una amicizia tra Putin e Trump? O per quali altre ragioni?
Probabile. Ma più che per l’amicizia con Trump, va detto che in Israele vivono circa un milione e mezzo di ebrei di origine russa, quindi Putin ha interessi anche interni allo Stato israeliano. Inoltre, il conflitto ucraino sta drenando risorse alla Russia. Tutta una serie di fattori, sia strategici – per il ruolo della Russia nei rapporti con Israele – sia tattici (per l’attuale debolezza russa), fanno sì che Mosca si sia dimostrata un’alleata poco affidabile in questo conflitto. Anche la Cina ha mantenuto una postura più defilata nella sua strategia di politica estera. A parte tre aerei mandati con qualche difesa antiaerea a Teheran, ha fatto ben poco. Questo ci dimostra come Israele sia fortemente sostenuta dall’Occidente, mentre l’Iran ha mostrato il suo isolamento. E questo è un messaggio che la leadership di Teheran dovrà recepire: perché, in questo momento storico, Teheran è così isolata?
Si è parlato anche di un possibile cambio di regime in Iran e della caduta della Repubblica islamica. Il figlio dell’ultimo scià di Persia Reza Pahlavi ha presentato un piano per una transizione democratica, affermando che il conflitto potrebbe essere la “caduta del muro di Berlino”. La popolazione accetterebbe?
La popolazione iraniana è fortemente nazionalista. Quindi, sebbene ci sia una forte critica alla Repubblica Islamica per il malgoverno e la mancanza di tutela dei diritti civili e umani, nel momento in cui c’è un attacco da parte di un Paese aggressore, il fronte interno tende a compattarsi. Inoltre, molte delle persone critiche verso il regime non desiderano un ritorno alla monarchia, ma una Repubblica diversa. L’idea di mettere sul trono il figlio del precedente re, che ha subito una rivoluzione, è percepita come qualcosa di anacronistico e inaccettabile. Le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini hanno dimostrato che c’è una società civile molto evoluta in Iran, pronta alla democrazia, ma non ad un ritorno al passato. Quindi sì, può essere stata un’operazione di propaganda, voluta forse dall’estero. In Iran, a parte una piccola minoranza — sia nella diaspora sia all’interno del Paese — la maggioranza non è favorevole né alla Repubblica Islamica né al ritorno del figlio dello Scià.
Questo scossone della guerra può contribuire in qualche modo ai processi interni di democratizzazione, opposizione e tutela dei diritti civili in Iran? Oppure, se la tregua regge, tutto tornerà come prima?
Se i governanti della Repubblica Islamica fossero intelligenti, dovrebbero rendersi conto di quanto siano stati infiltrati da Israele. Questo significa che c’è un forte malcontento, non solo tra la popolazione civile, ma anche all’interno del sistema. Dovrebbero trarne le dovute conseguenze e cercare di risolvere le problematiche che hanno portato a questa opposizione popolare e interna. Vedremo se sceglieranno la via delle riforme o, al contrario, se aumenteranno la repressione. Bisogna capire quale sarà la linea futura. Paradossalmente, questa guerra — attraverso l’uccisione di figure apicali anche all’interno delle forze armate — potrebbe favorire un cambio generazionale. Toccherà vedere come si porranno i nuovi militari dei Pasdaran: probabilmente saranno più aggressivi in politica estera, ma forse anche più aperti alle questioni interne.
Potrebbero riprendere i negoziati di pace?
Con gli americani, probabilmente sì. È un elemento importante: dalle dichiarazioni di Vance si è capito che gli Usa desiderano negoziati diretti, e finora l’Iran non li aveva concessi. Questa potrebbe essere una prima apertura.