Toscana

Istituzioni: regionalismo senz’anima

«Non basta fare le riforme. Bisogna farle bene». Il giudizio del professor Giovanni Tarli Barbieri, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Firenze, è secco. Insomma, l’Italia ha bisogno di una revisione istituzionale profonda. Ma i cambiamenti vanno ponderati bene. Tarli nella prossima Settimana sociale dei cattolici toscani – a Pistoia dal 3 al 5 maggio – sarà il coordinatore dell’area dedicata alla riforme. Il tema: «Completare la transizione istituzionale».

Cinquanta giorni di stallo per formare un nuovo governo, lo scontro per l’elezione del Presidente della Repubblica, la conferma di Napolitano come estrema via d’uscita. Professore, a che punto siamo del percorso? Oppure c’è la necessità di ripartire da capo?

«È difficile rispondere. Siamo infatti in presenza di una crisi politica senza precedenti. Ma i risvolti possono essere inquietanti. Questa situazione potrebbe ripercuotersi più che sul livello istituzionale su quello costituzionale, incoraggiando vie di fuga verso nuovi modelli che è difficile pensare risolutivi. Quando ci sono lacune come quelle evidenziate in questi giorni il primo problema è quello degli attori politici in campo».

C’è un problema di salvaguardia della democrazia?

«Spero di no. La democrazia italiana è salda e matura. Certo che un nuovo partito, ormai molto rilevante, come il Movimento 5 Stelle teorizza nuovi rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta tramite il web. Gli scenari che si aprono sono significativi, problematici e anche preoccupanti».

Un esempio sono le «quirinalie»…

«Sì. È stata sperimentata un’anomala consultazione degli elettori sul nome del Presidente della Repubblica senza riferire i risultati numerici, quanti avevano partecipato. Con questa idea si teorizza, di fatto, l’assenza della democrazia interna al partito politico».

Una deriva pericolosa…

«Sì, questo è un nodo fondamentale. È anche vero che la democrazia interna ai partiti va declinata bene, anche sugli strumenti. Per esempio le primarie, che in sé possono essere uno strumento positivo, se non vengono tradotte senza la necessaria prudenza possono produrre effetti devastanti. E poi la democrazia interna non può essere solo selezione dei candidati ma deve coinvolgere gli iscritti, gli elettori anche sulle linee programmatiche. Per esempio il Pd si è speso molto su questo, ma solo sul versante della selezione dei candidati. Le due dimensioni però non possono essere separate. Le spaccature di questi giorni possono essere il risultato di questa separazione».

E allora veniamo ai problemi. Cominciamo dalla legge elettorale nazionale che è parente stretta di quella regionale…

«La legge elettorale regionale, con le liste bloccate, ha eliminato per prima i criteri di selezione dei candidati da parte dei cittadini. Ma i suoi limiti si fermano qui. Diverso è il discorso sulla legge elettorale nazionale. Qui dobbiamo in primo luogo liberarci dalle caratteristiche più perniciose. La prima: i cittadini non hanno più nessuna voce nella selezione dei candidati, tranne i casi delle primarie decise da un soggetto politico in autonomia. La seconda: un premio di maggioranza esagerato del tutto scollegato da un consenso minimo ottenuto. Infine il sistema elettorale del Senato che è di tipo proporzionale ma con caratteristiche “casuali” che incidono direttamente sulla governabilità. Dopo le elezioni politiche del febbraio scorso siamo di fronte ad uno scenario totalmente rinnovato con tre poli (centrodestra, centrosinistra, Movimento 5 stelle) e mezzo (Scelta Civica): qualunque legge elettorale potrebbe non produrre l’esito sperato, ovvero una maggioranza certa intorno ad un polo. La legge elettorale è ormai solo un tassello di un percorso riformatore che deve andare incontro anche a qualche adeguamento costituzionale».

Quale strada dovrà imboccare questo percorso?

«Bisogna partire dal fatto che il modello del bicameralismo perfetto e paritario è superato. Il primo motivo è la previsione del doppio legame fiduciario che è qualcosa di anomalo, tale da esaltare il rischio di maggioranze diverse, a prescindere dal sistema elettorale, reso ancora più facile dal fatto che Camera e Senato sono eletti da corpi elettorali diversificati in base all’età. C’è necessità poi di inserire uno strumento che permetta la stabilità dei governi: per esempio la sfiducia costruttiva del sistema tedesco. Manca inoltre una camera che rappresenti e faccia valere al centro le ragioni delle autonomie regionali. Se questo elemento non c’è, il conflitto tra Stato e Regioni diventa solo ed esclusivamente giuriusdizionale e si gioca davanti alla Corte Costituzionale. C’è poi la riforma del “Titolo V” della Costituzione – approvata nel 2001, alla fine di una legislatura molto turbolenta e con riflessione inadeguata da parte delle forze politiche – che contiene molti elementi fortemente censurabili sul piano dell’efficacia. Penso ad esempio alla ripartizione delle materie tra Stato e Regioni che non tiene conto del fatto che ci sono delle materie che solo lo Stato può governare, per esempio i lavori pubblici di interesse nazionale. Così il contenzioso diventa altissimo. E il risultato finale è che noi abbiamo un regionalismo senz’anima, che non corrisponde più a un modello di riferimente chiaro e in molti casi non sappiamo chi fa che cosa. Tutto ciò è un grande monito: le riforme non basta farle, bisogna farle bene».

Quale può essere il contributo che può emergere dai cattolici toscani riuniti a Pistoia?

«Due i profili necessari: uno culturale, l’altro di proposta. Dal punto di vista culturale c’è da far partire un messaggio chiaro e forte: il pensiero sociale cristiano va ripreso in mano, ripartendo dal basso, a cominciare dalle realtà parrocchiali e, soprattutto, dai giovani. C’è bisogno di ritrovare una cultura istituzionale a partire dai valori del pensiero sociale della Chiesa. Altrimenti rischiamo di sbandare lungo approcci demagogici e populistici. Dal punto di vista della proposta c’è da rilanciare una cultura seria delle autonomie: un rilancio quindi delle autonomie regionale ma anche un rilancio della responsabilità. Non possiamo più vedere regioni – e non sto parlando della Toscana – dove non si legifera, si amministra poco e male, e si spende in maniera discutibile il denaro pubblico».