Italia

La crisi della famiglia in Italia

Dalla metà degli anni Settanta ad oggi le famiglie si sono sminuzzate, polverizzate. Da cellula della società sono diventate atomi. Roberto Volpi, statistico pisano, ha una grande esperienza sui numeri. A Firenze, ad esempio, ha progettato il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza presso l’Istituto degli Innocenti di Firenze. Per titolo di questa sua ultima fatica ha scelto una domanda retorica: «La nostra società ha ancora bisogno della famiglia?». Lo abbiamo intervistato.

Volpi, già nel 2007 aveva scritto «La fine della famiglia». Cosa è cambiato da allora?

«La famiglia si è ulteriormente frammentata e indebolita. Già nel 2007 si capivano le caratteristiche fondamentali: una famiglia estremamente piccola, ridotta nelle dimensioni, quasi senza figli (il figlio unico era già il caso maggioritario). La situazione è ulteriormente mutata in peggio. Cito soltanto un numero: le coppie con il componente di riferimento con meno di 35 anni sono una coppia su tredici. Questo dà l’idea di come l’universo delle famiglie è totalmente ingrigito, invecchiato: non si rinnova e invecchia precocemente».

I numeri che presenta sono impietosi. Basti citarne uno. Nel 1911  una famiglia su tre era composta da sei persone; nel 1951 era così ancora una famiglia su cinque. Oggi capita in un caso su cento…

«In Toscana, peraltro, le famiglie numerose sono solo lo 0,5%. Qui la situazione è ancora peggiore. Abbiamo famiglie senza figli e famiglie che non sono coppie… Ci sono famiglie formate da una sola persona, famiglie monogenitoriale (un genitore con i figli). Se questo è l’universo, è un universo che ha una scarsa vitalità e trasmette a sua volta alla società una scarsa vitalità. Senza dire che le relazioni interne alla società sono in gran parte relazioni fondate sui bambini e sugli adolescenti. È questo che comporta il ritrovarsi, la socialità delle famiglie tra di loro. Se non ci sono figli, o sono estremamente pochi, anche i legami sociali, di relazione di solidarietà si indeboliscono e tutta la società nel suo complesso ne viene a risentire in modo negativo».

Il fenomeno delle coppie di fatto non ha rimpiazzato il calo dei matrimoni, sia civili che religiosi.

«Questo è stato per molti anni un fenomeno sotto traccia, nascosto. Il censimento non aveva ancora colpito questo fenomeno. Ora abbiamo finalmente i dati dell’ultimo Censimento che ci dicono quante sono le coppie di fatto, quante hanno dei figli, ecc. Negli anni Sessanta c’erano quasi 400 mila matrimoni l’anno, quasi tutti religiosi, a dimostrazione che il modello di famiglia ispirato all’insegnamento della Chiesa era accettato anche dai laici. Avevamo 8 matrimoni ogni mille persone. Oggi sono 3,5, cioè meno della metà. Le coppie di fatto hanno in realtà recuperato pochissimo. Oggi su undici coppie, una è una coppia di fatto e dieci sono unite in matrimonio. In Italia le coppie di fatto non hanno avuto quel successo che hanno avuto in altre parti dell’Occidente, specie nel Nord Europa».

E sul fronte dei figli?

«Non hanno apportato in termini di fertilità e figli qualcosa che è stato perso dalle coppie unite in matrimonio. Le coppie di fatto sono aumentate, oggi sono un milione e duecentomila circa, quindi qualcosa rappresentano su 14 milioni di coppie. Però non hanno recuperato le coppie perse dal matrimonio e non apportano in termini di figli un miglioramento della situazione italiana».

Nel libro documenta come la famiglia tradizionale abbia mantenuto la sua vitalità nel dopoguerra, fino agli anni Settanta…

«La famiglia tradizionale, formata da una coppia eterosessuale, unita in matrimonio e molto aperta ai figli, è stato uno degli strumenti fondamentali del successo dell’Italia nei trent’anni che vanno dalla fine della Guerra agli inizi degli anni Settanta. Successo per la ricostruzione, il boom economico, la proiezione dell’Italia nel novero delle nazioni più ricche e industrializzate d’Europa e del mondo. In questi trent’anni la famiglia è stata al centro della vita italiana. Punto primo, si sposavano tutti. Punto secondo, si sposavano molto giovani, soprattutto le donne (23-24 anni di media). Terzo punto facevano 2,3-2,5 figli in media».

Poi cosa è successo?

«Per quanto possa non piacere all’intellighentja italiana, c’è una data a partire dalla quale la famiglia italiana prende un’altra traiettoria. Nel 1975 cominciano a calare i matrimoni e dall’anno successivo le nascite. Cosa era successo? Nel 1974 c’era stato il referendum abrogativo sul divorzio che invece lo confermò con ampio margine, il 60% di no. Quel responso delle urne ha determinato una deviazione, perché sono venute meno nel modello di famiglia due questioni connesse: l’indissolubilità e la fedeltà coniugale. Da quel momento si fa strada una concezione molto più laica della famiglia. Le serie statistiche non lasciano dubbi su questo. Poi ci sono altri fattori che si inseriscono…».

Tra gli altri fattori lei ne cita tre. L’università di massa che porta ad esempio le ragazze a rinviare l’idea del matrimonio in giovane età, perché prima devono laurearsi e affermarsi nelle professioni. Il secondo è la scarsa mobilità sociale, che fa perdere la voglia di mettere al mondo dei figli. E poi c’è la terziarizzazione dell’economia che porta ad un tipo di lavoro diverso, che implica meno la presenza di una famiglia tradizionale alle spalle. Oltre questi elementi lei però sottolinea come si perda anche il «fascino» del matrimonio. Il matrimonio diventa una scelta che si può fare solo da «adulti» e la si carica di tante aspettative che, anziché garantirne il successo, spesso lo portano al fallimento. In questo, lei sottolinea, c’è anche una responsabilità della Chiesa che ha contribuito a togtliere quella «leggerezza» con cui nel dopoguerra i giovani andavano incontro al matrimonio. Adesso vedono la famiglia come un fardello… Anche nel recente Sinodo si è insistito sulla necessità di rendere più impegnativa la preparazione… Nella sua esperienza è questa la strada giusta?

«No, mi sembra questa un’analisi sbagliata da parte del Sinodo. I dati parlano chiaro: si è allungata l’età media al matrimonio e ai figli, però la famiglia si sfascia molto più di prima. L’idea che la famiglia sia una cosa gravosa da portare, che la coppia, il matrimonio, i figli siano cose difficili, che prima di arrivarci bisogna aver tutto, non solo le cose materiali – la casa, il lavoro, la sicurezza… – ma anche la preparazione intellettuale, psicologica… Tutto questo deprime il matrimonio e la famiglia. Non a caso nel dopoguerra si arrivava alla famiglia considerando che era un percorso in itinere. Ci si sposava, dicendo: “poi si vede che succede… la casa non è pronta? Sarà pronta dopo”. La famiglia esercitava un elemento di sollecitazione sociale, era un trampolino di lancio nella vita, spingeva a fare… L’acquisto della Cinquecento e della Seicento era da parte delle coppie che si erano sposate giovani e che pagavano le rate… Non erano partiti con la macchina, ci sarebbero arrivati. La famiglia era considerata quindi come un qualcosa che si aveva alle spalle non sulle spalle. Qualcosa che ti spingeva a fare, non che ti frenava».

E la preparazione in parrocchia allora non si faceva…

«C’era una concezione lieve e felice della famiglia, che si è smarrita. Ma non si è smarrita perché oggi siamo meno preparati. Queste sono sciocchezze…. Il paradosso è questo: più uno arriva tardi alla famiglia e più ci arriva con un bagaglio di esperienze che poi non è facile mettere insieme alle esperienze dell’altro. Certo, non si può pensare di arrivarci presto come una volta. Le donne, fortunatamente, continueranno ad andare all’università più degli uomini e con migliori risultati. È perfetto che sia così. La cosa che non è perfetta è che si installi l’idea che ci si può mettere assieme, si può iniziare a progettare il futuro soltanto quando tutte le condizioni della vita sono state assestate. Quindi non c’è più il rischio del futuro…».

Cosa fa la famiglia? Oggi si mette tutte le unioni sullo stesso piano, purché ci sia l’amore…

«Oggi con la concezione che famiglia è semplicemente là dove c’è amore e sentimento – che mi sembra una cosa ovvia – non importa più mettere nella famiglia la propria responsabilità di individui e di coppie, perché semplicemente l’amore e il sentimento bastano per tutto. Corollario è che non importa istituzionalizzare il legame di famiglia, non importa passare attraverso il matrimonio religioso o civile che sia, perché il sentimento di per sé, ufficializza il legame di coppia. Se una società ha una cellula che si chiama famiglia, questa società è forte nella misura in cui c’è un riconoscimento reciproco tra famiglia e società. Il matrimonio è un mettere la propria responsabilità di individui e di coppie in una famiglia, se non si fa questa operazione la società si fonda su una serie di cellule, che io ho chiamato atomi, che in realtà non sentono alcuna responsabilità verso la società perché nella famiglia che non si istituzionalizza, c’è semplicemente un disconoscimento del livello superiore della società rispetto a se stessa. Non si sente alcun vincolo. Per questo oggi la società è meno coesa, meno solidale, più sparpagliata. Una società di atomi che non interagiscono, anziché di cellule che fanno i tessuti dell’organismo».

E qui torniamo al titolo del suo libro. I singoli forse possono fare a meno della famiglia tradizionale, ma gli stati no.

«Questo è il punto centrale della discussione. I singoli possono farne a meno, se si trovano meglio. È molto più semplice lasciarsi se non si è istituzionalizzato niente. Ci si può muovere con maggiore libertà all’interno di un rapporto non formalizzato. Ma, se un individuo, una coppia, può fare questo ragionamento, uno Stato deve porsi il problema. A maggior ragione in quanto – ormai lo sappiamo – le coppie di fatto fanno meno figli di quelle unite in matrimonio. E in un paese dove c’è una carenza di figli come in Italia, questo dovrebbe far pensare».