Pisa

LA FESTA DELLA DEDICAZIONE DELLA CATTEDRALE

La Chiesa pisana in festa ricorda il giorno in cui, 894 anni fa, papa Gelasio II consacrava la Cattedrale. Mercoledì 26 settembre alle ore 18 l’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto presiederà una concelebrazione eucaristica.

Scrive il nostro Arcivescovo: «Carissimi, mercoledì 26 settembre ricorre la solennità della dedicazione della nostra Cattedrale avvenuta nel 1118 ad opera di Papa Gelasio II. È la festa della Chiesa madre della nostra diocesi, ed in particolare, della Chiesa madre della città di Pisa. È dunque bello ritrovarci in solenne concelebrazione, alle ore 18, nella nostra Primaziale.

Per permettere a tutti i sacerdoti e ai fedeli di essere presenti, nel pomeriggio di mercoledì 26 settembre sono sospese tutte le SS. Messe nelle altre chiese della città di Pisa».

di Gabriele Zaccagnini

ondata nel 1064 e affidata alla maestria dell’architetto Buscheto, la cattedrale di Pisa fu consacrata da papa Gelasio II, giunto in città come prima tappa di un viaggio per nave che aveva come mèta la Francia, il 26 settembre 1118. L’evento è ricordato in due testi coevi, la Cronaca di Montecassino e le Gesta triumphalia per Pisanos facta, ma il racconto più dettagliato è quello della «Historia Dedicationis», un testo liturgico della metà del secolo XIV (Archivio Capitolare, manoscritto C150) in cui si legge che il pontefice consacrò la cattedrale, ancora incompleta, «in honorem gloriosissime virginis Marie». Erano presenti moltissimi ecclesiastici, cardinali e vescovi di Roma, della Tuscia, della Sardegna, oltre al clero pisano al gran completo. Gelasio concesse innumerevoli indulgenze (sicuramente un po’ amplificate dalla Historia) ed effettuò la repositio, cioè la ricollocazione nel nuovo altare delle reliquie custodite nella cattedrale precedente, fra cui due ampolle, «una de sanguine Yconie Domini, alia de adustione Laurentii», cioè una con il sangue miracolosamente sgorgato dall’icona del SS. Salvatore di Beirut, colpita da lancia sacrilega, e una contenente materia organica delle piaghe del martire Lorenzo, bruciato sulla graticola. A queste il papa aggiunse numerose reliquie prelevate «de suis scriniis», cioè dall’immenso tesoro lipsanico custodito in S.Giovanni in Laterano.

L’antica celebrazione liturgica della festa della Dedicazione della cattedrale è descritta nell’Ordinario liturgico pisano, testo ancora inedito, composto prima della metà del secolo XII, quindi pochi anni dopo la consacrazione della cattedrale, di cui sto preparando l’edizione critica. La festa, di nove lezioni con ottava, era celebrata solennemente, «sicut in festivitatibus Domini». La sera precedente, dopo i primi vespri, il popolo e il clero cittadino si riunivano in cattedrale per partecipare alla «vigilia». Questa liturgia, di origine romana ma sviluppatasi in modo peculiare nella Toscana medievale, era una sorta di «anticipazione» del Mattutino e veniva celebrata solo nelle feste principali, dopo il tramonto, in un orario tale da consentire la partecipazione dei fedeli. Il giorno successivo l’arcivescovo e i canonici si recavano nella chiesa di S. Sisto (la «ecclesia maior» del Comune pisano) per recitare l’ora Terza; quindi, a cavallo e processionalmente, tornavano in cattedrale. All’ingresso l’arcivescovo indossava il pallio e «cum devotione maxima» presiedeva la solenne concelebrazione cantata.

Non sarà inutile ricordare che il termine cattedrale deriva dal latino «ecclesia cathedralis», cioè «chiesa della cattedra». La parola cattedra deriva a sua volta dal greco càthedra, il «luogo in cui si siede», cioè il seggio, tipicamente quello in cui sedevano coloro che svolgevano un magistero, per esempio i filosofi, di fronte ai discepoli. Nel lessico cristiano indica il seggio episcopale, posto al centro del presbiterio: da lì il vescovo presiede la liturgia e spiega la Parola di Dio.

L’ecclesia cathedralis è dunque la «chiesa del vescovo» e, di conseguenza, la chiesa madre della Diocesi, di cui le altre chiese sono solo, per così dire, succursali, rese necessarie dalle distanze e dalla difficoltà che i fedeli incontravano, nei secoli passati, per recarsi alle funzioni liturgiche in cattedrale. Inizialmente, nelle zone più remote delle diocesi, furono costituite le pievi, in cui si poteva anche battezzare («plebes baptismales»), poi le altre chiese, le parrocchie; ma la ecclesia mater, la domus Dei, cioè la casa di Dio (da cui il termine duomo, che però può indicare anche la chiesa principale di una cittadina che non è sede vescovile) era, è e resta la cattedrale: qui si riunisce la Chiesa locale intorno al vescovo, alla Parola di Dio e all’Eucarestia, e da qui, idealmente, si irradia il Vangelo. È un edificio fisico in cui si rende visibile quell’edificio teologico che è la Chiesa, cioè il corpo mistico di Cristo, che non è una entità astratta ma una realtà concreta, cioè l’insieme delle comunità locali costituite intorno ai vescovi da tutti i battezzati.

Se la Chiesa è una realtà spirituale e teologica, tuttavia ha bisogno anche di luoghi e di ambienti adatti per radunarsi e per pregare, cioè le chiese. Ma parlare della chiesa-edificio come «domus Dei» non è del tutto corretto: le chiese, comprese le cattedrali, sono solo segno, non «dimora di Dio», come lo era il tempio di Gerusalemme (dove, nel sancta sanctorum, fra le ali dei cherubini d’oro sul coperchio dell’Arca dell’Alleanza, c’era la shekhinah, la presenza di Dio), perché per i cristiani il vero tempio di Dio è Gesù, presente sempre e ovunque sono radunati i suoi discepoli: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt. 18,20). La presenza di Dio non è quindi legata a un luogo particolare o a un oggetto fisico, come l’Arca dell’Alleanza, ma alla volontà della creatura di accogliere il Creatore, diventandone dimora. Alla Samaritana, che gli chiedeva se fosse giusto adorare Dio sul monte di Sion piuttosto che sul Garizim, Gesù rispose: «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv. 4,21-24). Per questo è la Chiesa il solo «tempio» in cui il Padre può essere adorato «in spirito e verità», nella verità che è Verbo e nel tempio di Dio che è il cuore dell’uomo; sono i cristiani le «pietre vive» di cui essa è costituita («anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo», 1Pt. 2,5); è la vita quotidiana della Chiesa, che vive e annuncia il Vangelo con le parole e con le opere, il sacrificio spirituale gradito a Dio.

La comunità diocesana, specialmente quando è riunita in cattedrale intorno al vescovo, deve essere segno visibile e anticipazione della nuova Gerusalemme in cui non vi sarà alcun tempio, della città di Dio fondata sull’amore e la giustizia, dove tutti saranno una cosa sola, dove i dislivelli sociali creati dal peccato saranno annullati, dove non ci saranno ricchi o poveri, oppressori o oppressi, dove i posti a sedere più ambiti non saranno i primi, ma gli ultimi. Nell’ufficio delle letture della festa della Dedicazione si legge usualmente un bellissimo brano tratto dalle Omelie di Cesario di Arles (†543), che ne spiega bene il senso: «celebriamo il giorno natalizio di questa chiesa: ma il tempio vivo e vero di Dio dobbiamo esserlo noi … Dopo il battesimo siamo diventati tempio di Cristo. Cerchiamo di fare con il suo aiuto quanto è in nostro potere, perché questo tempio non abbia a subire alcun danno per le nostre cattive azioni. Cristo si è degnato di fare di noi la sua dimora. Se dunque vogliamo celebrare con gioia il giorno natalizio della nostra chiesa, non dobbiamo distruggere con le nostre opere cattive il tempio vivente di Dio. Se tu vuoi che la basilica sia piena di luce, ricordati che anche Dio vuole che nella tua anima non vi siano tenebre. Fa’ piuttosto in modo che in essa risplenda la luce delle opere buone, perché sia glorificato colui che sta nei cieli».

In questa prospettiva la festa della Dedicazione della cattedrale dovrebbe anche essere occasione per riflettere sulla storia della Chiesa locale, non come erudito ricordo di fatti e personaggi, né come rievocazione di presunte «passate glorie», ma come rilettura sapienziale, come riflessione spirituale su quello che siamo stati e su quello che siamo, quindi anche come esame di coscienza comunitario. Più che contemplare estasiati i capolavori dell’arte dovremmo riflettere sul fatto che troppo spesso abbiamo curato e abbellito le mura di pietra dimenticando di fare altrettanto per rendere «bella» la nostra Chiesa con una vita santa e con scelte, individuali e collettive, conformi al Vangelo e alle Beatitudini, come hanno fatto il patrono Ranieri e gli altri nostri santi, che hanno davvero reso bella la Chiesa pisana agli occhi di Dio.

È importante ricordare, infine, che il titolare della cattedrale è la Madre di Dio. E non potrebbe esistere un titolo più adatto, perché Maria è realmente la dimora in cui Dio si è fatto carne e quindi è madre e modello della Chiesa, esempio luminoso e insuperabile di come i cristiani possono e debbono essere Chiesa, cioè accogliendo il Verbo di Dio e divenendone stabile dimora: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi prenderemo dimora presso di lui» (Gv.14,23).