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La guerra tra palestinesi, un dramma nel dramma

di Romanello CantiniCi voleva una guerra fra palestinesi come se 60 anni di guerra fra israeliani e palestinesi non bastassero. E ci voleva una nuova divisione fra il territorio di Gaza e il territorio della Cisgiordania come se la Palestina non fosse già uno spezzatino di paese sbriciolato fino all’assurdo fra zone ebraiche e zone arabe.

Le responsabilità dei palestinesi che hanno voluto macchiarsi del proprio sangue non sono piccole. Sappiamo ormai a memoria le colpe che si addebitano loro: la rivendicazione del terrorismo e la distruzione di Israele da parte di Hamas; la corruzione e l’attaccamento al potere da parte di Al Fatah. Ma, al di là degli errori degli uomini, è impossibile non dire che hanno contribuito a dar fuoco alle polveri di una guerra fratricida, le condizioni sempre più insostenibili di un popolo in fatto di pane per il presente e di dignità per il futuro. La zona di Gaza dove sono iniziati gli scontri è stata definita dal rappresentante dell’Onu in Palestina Alvaro de Soto «una prigione a cielo aperto». È una prigione affollata e disperata come lo sono in genere le prigioni vere: un milione e mezzo di abitanti fra cui un milione di profughi, quattromila abitanti per ogni chilometro quadrato, un disoccupato su tre, un reddito medio di due dollari al giorno, l’occupazione per quasi la metà fornita dagli impieghi pubblici di cui è padrona e dispensiera l’Autorità Palestinese (il cui controllo non è solo quindi un problema politico soltanto, ma una conquista economica).

Su questa realtà già insostenibile ed esplosiva il blocco dei contributi e degli aiuti da parte di Israele e del mondo occidentale ha avuto un effetto dirompente anche se motivato dalla necessità di sanzionare Hamas che ha vinto le elezioni di diciotto mesi fa e che è ancora considerata una organizzazione terroristica. Nei confronti di questi nuovi rappresentanti del popolo palestinese si sono volute mettere come condizioni pregiudiziali ad ogni dialogo quelle concessioni che in genere si cerca di ottenere al termine di una trattativa. Ad Hamas è stato chiesto prima ancora di guardarsi in faccia di riconoscere Israele e di rinunciare al terrorismo. Due richieste legittime e doverose ma che pregiudizialmente non si avanzarono quando trent’anni fa si cominciò a stringere la mano ad un Arafat che era sulle stesse posizioni.

Ora che Abu Mazen ha liquidato Hamas in Cisgiordarnia con la stessa violenza che Hamas ha usato nei confronti di Al Fatah a Gaza, da parte occidentale ci si dice pronti a riaprire il rubinetto degli aiuti verso il capo di Al Fatah. In questo modo si premia certamente il moderatismo ma non certamente la democrazia perché di Hamas si può dire tutto il male possibile ed immaginabile eccetto quella che nel gennaio dell’anno scorso non abbia vinto le elezioni in Cisgiordania e a Gaza non solo con risultati schiaccianti ma anche con una vittoria pulita. E se con l’intransigenza di Hamas si è stati fino all’ultimo inflessibili una pressione altrettanto decisa non è stata fatta nei confronti di una politica israeliana che ormai sta pregiudicando nei fatti la prospettiva di uno stato palestinese promesso sempre e solo a parole. Basta ricordare che appena due anni fa Israele rischiò la guerra civile solo per spostare 8 mila coloni da Gaza per misurare l’ostacolo enorme sulla via di qualsiasi pace che costituisce questa ininterrotta invasione di popolazione ebraica dentro quello che sempre più ipoteticamente, a meno di una dura inversione di tendenza, si continua a immaginare come il futuro stato palestinese.