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L’Africa dimenticata: continente in guerra con boom di nascite

Se si escludono i siriani, la stragrande maggioranza dei migranti che giungono sulle nostre coste sono africani. E dell’Africa, cioè della sorgente da cui partono tante masse in fuga e dei motivi che spingono uomini che stanno al di sotto del Sahara ad attraversare un continente per cambiare continente, si parla appena in un momento in cui pure tanto si discute di emigrazione. E poco ci si accorge che l’Africa del ventunesimo secolo minaccia di dare alla emigrazione una dimensione tale nel tempo e nello spazio mai vista sinora nemmeno nei mesi più recenti che pure sembrano i più allarmanti. Altrimenti ci si convincerebbe che non solo chi va in giro a vendere blocchi navali, muri e fili spinati, frontiere sprangate e rimpatri di massa, ma perfino chi pensa che il problema possa risolversi con il riportare l’ordine in Libia non ha preso le misure vere del grande sconvolgimento che si crede di potere tamponare con qualche tappo sui buchi più vistosi.

Intanto bisogna rendersi conto che spesso oggi bisogna stare fuori dell’Africa per stare fuori dalla guerra. Se si mettono insieme i conflitti a bassa ed alta intensità che imperversano dal Mediterraneo all’Oceano Indiano oggi ben venticinque stati africani sul totale di cinquantaquattro sono in guerra. E sono spesso guerre che come tutti i conflitti interni colpiscono più la popolazione civile che i combattenti. Il conflitto nel Mali ha fatto sì che ormai l’80% della popolazione può vivere solo con l’assistenza alimentare. La guerra civile nel Sud Sudan ha provocato due milioni di profughi di cui mezzo milione sono già fuori del paese.

Buona parte dei paesi africani, fra cui l’Eritrea e il Gambia, fra i più attivi nel produrre profughi, sono in mano a dittatori senza scrupoli che nessuno più sembra mettere nemmeno in discussione. Yahya Jammad, il dittatore del Gambia esibisce le sue foto insieme a Barak Obama alla Casa Bianca. Omar al Bashir, il dittatore del sud Sudan colpito da mandato della Corte penale internazionale, partecipa regolarmente a tutti vertici i dei capi di stato africani.

E soprattutto l’Africa rimane ancora il continente dove, anche dopo la scossa che la globalizzazione ha dato negli ultimi venti anni al Terzo Mondo, la povertà cresce anziché diminuire e dove coloro che sono nella povertà assoluta fanno ancora dovunque maggioranza o addirittura regola. Coloro che vivono con meno di un dollaro e venticinque cents al giorno oscillano fra il 50% del Sudan e del Senegal e l’80% del Ciad e della Repubblica del Congo. Anche laddove in questi ultimi anni è aumentata la ricchezza sono aumentate anziché diminuite anche le disuguaglianze. Perfino la Nigeria, che grazie alla vendita del suo petrolio è diventato il paese con il più alto reddito del continente, nel suo Nord-Est, dove imperversa Boko Haram, ha il 70% della popolazione in povertà assoluta. E se questo è successo quando il petrolio costava 170 dollari al barile figuriamoci cosa può succedere d’ora in avanti che costa 50 dollari.

In generale è soprattutto il futuro dell’Africa che appare una sfida tale da far tremare i polsi e da fare temere che le notizie di oggi siano forse non la conclusione, ma solo i titoli di testa di un dramma che può trascinarsi per tutto  questo secolo appena iniziato.

Ancora mezzo secolo fa la popolazione dell’Africa era di duecento milioni di abitanti. Oggi si prevede che nel 2050 la popolazione del continente nero raggiungerà i due miliardi cioè dieci volte tanto. Al Forum economico dell’Africa che si è tenuto a Città del Capo nel giugno scorso è stato chiesto ai governi africani di prepararsi a creare ogni anno 29 milioni di nuovi posti di lavoro per far vivere i giovani che saranno sempre di più. E tutto questo dovrebbe avvenire in un continente colpito dalle variazioni climatiche, dal calo del costo delle materie prime che sono l’unica risorsa dell’Africa, dalla povertà della industria locale tanto che l’Etiopia, il paese che più è cresciuto negli ultimi anni, è debitrice della sua industria ai cinesi che hanno delocalizzato nella ex-colonia italiana un po’ della loro industria tessile.

E tutto questo mentre il mondo occidentale ha ormai cessato di interessarsi all’Africa sia per quanto riguarda le sue guerre senza fine sia per quanto riguarda il suo sviluppo ancora lento e ineguale. Basta pensare che dal 2009 la Cina ha superato gli Stati Uniti per il volume dei suoi rapporti economici stabiliti con l’Africa. C’è il rischio quindi che per quanto riguarda il futuro persino parlare di esodo «biblico» come si fa in questi giorni per ricordare i seicentomila ebrei che fuggirono dall’Egitto sia solo una similitudine lontanissima per difetto. E di fronte alla prospettiva di continenti che sembrano smottare l’uno sull’altro, di fronte alla previsione di una nuova geografia umana del pianeta che si sta ridisegnando, è impotente da sola non solo naturalmente l’Italia, ma anche l’Europa. Si tratta invece di dare vita ad un progetto globale che renda più accogliente l’Europa e più accogliente l’Africa, più ospitale l’Ungheria e più ospitale l’Eritrea. Non a caso giustamente il cardinale Bagnasco ha detto che il compito di affrontare sul serio il problema dell’emigrazione spetta all’intero Occidente, e più ampiamente ancora alle Nazioni Unite ammesso che l’Onu sia ancora capace di essere la responsabile dei grandi problemi a dimensione planetaria come si prevedeva alla sua nascita.