Opinioni & Commenti

L’America verso il «miracolo» del primo presidente nero?

di Romanello Cantini

«Quanto tempo ci vorra? Non tanto. Perché nessuna menzogna può vivere in eterno». Così aveva detto Martin Luther King nel suo famoso discorso di Montgomery quarantatrè anni fa. Ma ora se con molta probabilità dal prossimo gennaio la casa Bianca cambierà letteralmente pelle e assisteremo al miracolo del primo presidente nero che si siede nella Sala Ovale, questo evento simbolo che renderebbe compiuta la vittoria dei diritti civili dei neri al di là della loro persistente inferiorità sul terreno economico e sociale ci sembra, considerati i precedenti, che si stia per verificare prima ancora di ogni speranza. E la cosa più importante, prima ancora del risultato elettorale, è che se Barak Obama sarà eletto non lo sarà perché è nero o nonostante che sia nero ma semplicemente perché è un americano che ha convinto. Alcuni sondaggi hanno rivelato che oggi l’indifferenza al pregiudizio razziale è più alta addirittura del pregiudizio sessuale. Per intenderci avrebbe più danneggiato Hillary Clinton il fatto di essere donna che Barak Obama il fatto di essere nero. Né d’altra parte gli schieramenti si sono formati intorno al sì e al no alla negritudine. Andrey Young, il nero amico di King e primo ambasciatore di colore all’Onu, ha fatto propaganda per la Clinton e Edward Kennedy ha appoggiato fin dal primo momento Obama. E se Obama vincerà lo farà su l’ex pilota John McCain, ferito quarant’anni fa da una baionetta vietnamita, nipote e figlio di ammiragli, padre di un caporale dei marines e di una cadetto dell’Accademia. Insomma sul tipico eroe di razza americano. E forse ci voleva la guerra in Iraq perché al grande monumento di McCain gli americani arrivassero a preferire non solo un nero, ma anche un laureato in ragioneria come è di fatto Obama. Ed è di fatto alla prova delle sue idee che ora bisognerà aspettare un eventuale presidente nero che si è integrato perfettamente non solo nella società americana, ma anche nella tradizione politica del partito democratico. Al di là della opposizione preventiva alla guerra in Iraq che Obama ha sfruttato abilmente nella sua campagna elettorale a far pendere la lancetta dei sondaggi a favore del senatore dell’Illinois è stata decisiva la catastrofe finanziaria che già si trasforma in catastrofe economica. Su questo piano il senatore McCain ripropone la tradizionale ricetta repubblicana della riduzione delle imposte per ridare slancio ai consumi e alla produzione con l’aggiunta di un taglio all’enorme deficit pubblico che oramai raggiunge i quattrocento miliardi di dollari. Due medicine che, ammesso che siano efficaci, non potranno che far vedere i loro effetti prima di quattro e cinque anni. Obama, sulla linea di quell’interventismo statale moderato che risale a Roosvelt, propone invece un intervento dello stato per aiutare gli acquirenti di case a pagare i loro mutui, per finanziare i progetti educativi e infrastutturali, per allargare l’assistenza medica che oggi lascia scoperto il 17 per cento degli americani. Il tutto in un quadro di revisione fiscale con riduzioni sui ceti più bassi e recupero sui ceti più alti che certamente non si preoccupa troppo del deficit pubblico.  a il punto di forza della campagna di Obama che più ha fatto breccia fra gli elettori è stata soprattutto la denuncia dell’abbandono dei controlli che ha consentito la cinica irresponsabilità delle banche che è stata la miccia della crisi finanziaria.

In politica estera mentre McCain punta sempre alla vittoria in Iraq Obama sostiene ancora il ritiro delle truppe anche se non parla più di ritiro entro sedici mesi come sosteneva all’inizio, ma solo di ritiro «responsabile», mentre in Afghanistan chiede un maggiore impegno degli europei per andare avanti. Per quanto riguarda le risorse energetiche cacciate a forza nella campagna elettorale dal prezzo della benzina che in un anno è quasi raddoppiato negli States, entrambi i candidati sostengono il bisogno dell’autosufficienza con McCain che punta al nucleare e Obama ad altre fonti come il carbone pulito e le energie rinnovabili compresi i biocarburanti da aggiungere ad un ulteriore sfruttamento del petrolio nazionale. Il senatore dell’Illinois appare meno originale in Medio Oriente dove si è spinto fino a garantire agli israeliani Gerusalemme tutta intera capitale del loro stato e dove, nei confronti del nucleare iraniano, pur dando la precedenza ai negoziati non esclude in extremis anche la soluzione militare. Più interessanti appaiono i suoi progetti a livello planetario fra cui un forte richiamo alla difesa dell’ambiente mentre finora gli Stati Uniti sono stati il principale ostacolo alla applicazione del protocollo di Kyoto, un rinnovato impegno a rimettere al centro della politica internazionale l’obiettivo del disarmo nucleare mondiale quando una enorme proliferazione si profila ormai dietro l’angolo e soprattutto, da parte di un candidato che non esita a proporre misure protezioniste, l’invito esplicito venuto, ad esempio dal suo discorso di Berlino, a «spartire più giustamente» anche i vantaggi che derivano dalla apertura dei mercati. Sarà su questo piano di revisione della mondializzazione selvaggia, con un intero mondo occidentale che già recita i mea culpa a voce più o meno alta e un possibile presidente americano che più che sul mercato crede nelle regole del mercato, che ci dovremo aspettare le maggiori novità.