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L’anniversario: Israele-Hamas due anni dopo

Fabio Nicolucci, analista strategico dell’Ispi e della Nato Defense College Foundation: “Israele una nuova Sparta: vincere la guerra, ma perdere la pace”

(Foto Ansa/Sir)

Due anni di guerra non hanno ancora spento le domande sul 7 ottobre 2023, una data che ha segnato un ‘prima’ e ‘un dopo’ non solo per Israele ma per l’intero Medio Oriente. È il punto di non ritorno di un conflitto che ha mutato equilibri politici, rapporti di forza e percezione collettiva della sicurezza.

A parlarne al Sir è Fabio Nicolucci, analista strategico dell’Ispi e della Nato Defense College Foundation, profondo conoscitore dei temi legati a Israele, al jihadismo, all’Africa e al mondo arabo. Nel suo libro “Israele e il 7 ottobre. Prima e dopo” (Guerini e associati, 2024), Nicolucci ricostruisce le radici e le conseguenze di un evento destinato a ridefinire la geopolitica della regione.

Dopo due anni di guerra, il 7 ottobre appare sempre più come una data spartiacque tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ Israele, e forse non solo per Israele ma per l’intera regione. Perché è stato un “game changer”?
Per la portata stessa dell’attacco di Hamas, che ha colto Israele completamente di sorpresa. La violenza, la crudeltà e l’impatto politico sono stati tali da produrre effetti imprevisti e duraturi. Ma il 7 ottobre è un punto di svolta anche per la risposta di Israele, e in particolare di Netanyahu, che ha gestito quella sfida militare e politica in modo da trasformarla in una crisi sistemica. Hamas, e in particolare il suo leader Yahya Sinwar, ha intuito un vuoto politico: Israele stava per firmare un accordo con l’Arabia Saudita, chiave di volta del sistema regionale, lasciando ai margini la questione palestinese, come se fosse superata. Sinwar si è inserito in questa illusione di Netanyahu, mostrando — come scrivo nel mio libro — una visione strategica notevole, oltre che militare.

Nei primi mesi dopo l’attacco, tuttavia, la reazione israeliana sembrò compatta…
Sì, perché i primi a reagire furono i riservisti democratici, quelli che per quaranta settimane avevano manifestato contro la riforma giudiziaria e la limitazione dei poteri della Corte Suprema. Furono loro a correre in difesa dello Stato minacciato da Hamas, mentre Netanyahu restava paralizzato dal crollo della sua visione politica. Nei primi tre o quattro mesi, la guerra era percepita come legittima, una risposta doverosa all’aggressione, e godeva del sostegno della comunità internazionale. Se Israele si fosse fermato nel febbraio 2024, avrebbe vinto: avrebbe annientato politicamente Hamas e riconquistato consenso mondiale, riconoscendo però la realtà di una questione palestinese irrisolta. Invece, la scelta di Netanyahu di negare quella realtà e di promettere una ‘vittoria totale’, impossibile da ottenere solo con mezzi militari, ha condotto al disastro attuale. Hamas ha usato la tattica del judo: sfruttare la forza dell’avversario per farlo cadere. Ed è esattamente ciò che è accaduto.

Dopo due anni, dunque, chi ha vinto e chi ha perso?
Militarmente ha vinto Israele, e questo era previsto. Ma politicamente la vittoria è di Hamas. Nel mio libro ‘Israele e il 7 ottobre. Prima e dopo’, nel capitolo ‘La trappola di Hamas’ spiego come Sinwar, dopo vent’anni di carcere in Israele, conoscesse profondamente la società israeliana. Sapeva che di fronte a una guerra giusta il Paese si sarebbe compattato, e che il suo apparato militare era imbattibile. Allora ha trascinato Israele in una guerra sbagliata, nel fango di un conflitto etico senza morale, dove il nemico veniva disumanizzato. Netanyahu, con la sua retorica messianica e guerrafondaia, si è fatto intrappolare. Oggi Hamas ha ottenuto ciò che voleva: ha accettato la tregua dopo aver raggiunto i suoi obiettivi, anche al prezzo del sacrificio della propria leadership. Netanyahu, invece, è stretto tra due alternative: riconoscere la sconfitta o continuare a inseguire l’illusione di una vittoria totale, perdendo tempo, vite e risorse, non solo dei palestinesi ma anche dei giovani israeliani.

A livello sociale, quali effetti ha prodotto il 7 ottobre nella società israeliana?
Ha rovesciato il paradigma stesso del potere. Per un sovranista come Netanyahu è paradossale, ma le élite hanno perso contatto con il popolo, sia in Israele che nei territori palestinesi. Il vero cuore della questione è la Cisgiordania, non Gaza. È lì che si gioca il nodo politico: la sicurezza del popolo o la conquista della terra? Netanyahu ha gettato nella confusione strategica un intero Paese, esasperando le tensioni e indebolendo la democrazia, ormai più ‘democratura’ che democrazia. Oggi molti israeliani sono contro la guerra, ma non perché vogliono la pace: perché la guerra impedisce la liberazione degli ostaggi. Ed è proprio su questa ambiguità che Netanyahu continua a giocare.

Che peso può avere oggi il cosiddetto “piano Trump”?
In realtà non è un piano di Trump. Io individuo l’origine in un’iniziativa franco-saudita presentata all’Onu, poi sostenuta da Turchia, Arabia Saudita e da gran parte del mondo arabo. Riyadh ha chiesto a Trump di intervenire perché è l’unico leader che può ancora influenzare Netanyahu, anche per interessi personali. Trump non aveva alcuna intenzione di occuparsi della questione palestinese: gli è stato imposto, e ha finito per riprendere quasi integralmente il piano Biden, con gli stessi contenuti di un anno fa. Solo che allora né lui né Netanyahu erano pronti. Oggi, invece, la situazione è precipitata, il mondo si è scosso e perfino Trump sembra stanco di questa guerra infinita.

Israele è isolato sulla scena internazionale. Sempre più Paesi riconoscono lo Stato di Palestina, mentre antisionismo e antisemitismo riemergono drammaticamente. Dopo la questione palestinese, sta nascendo una “questione israeliana”?
Purtroppo sì, e Israele ne porta la responsabilità ed è una deriva è pericolosa. Il delirio di onnipotenza che lo Stato israeliano ha mostrato — negando aiuti umanitari, impedendo l’accesso ai giornalisti e colpendo indiscriminatamente — è disumano e autolesionista. I greci chiamavano questo errore ‘hybris’: l’eccesso che precede la caduta. Il rischio è che Israele si trasformi in una nuova Sparta: vincere la guerra, ma perdere la pace.

Esiste ancora spazio per una soluzione a due Stati?
La situazione è drammatica, come a Gaza. Ma non vedo alternative. Rimuovere le macerie — materiali e morali — sarà difficilissimo, e lo sarà anche districare le colonie dal tessuto della Cisgiordania. Tuttavia, la soluzione a due Stati resta possibile. L’altra via sarebbe uno Stato bi-nazionale, simile al vecchio mandato britannico, in cui tutti votano indipendentemente dall’etnia. Ma ciò segnerebbe la fine dello Stato ebraico come lo immaginava il sionismo democratico. È per questo che gli apparati di sicurezza israeliani restano contrari: sanno che non si può avere contemporaneamente uno Stato ebraico e democratico se si controlla un altro popolo. Bisogna scegliere.

La legge sullo Stato-nazione del 18 luglio 2018 che, per la prima volta nella storia di Israele, definisce ufficialmente lo Stato come “la casa nazionale del popolo ebraico“ ha contribuito a questa deriva?
Sì. Quella legge, che esclude di fatto gli arabi israeliani da ogni piena partecipazione politica, è stata l’inizio della codificazione di questa deriva. È lì che il sogno democratico ha cominciato a incrinarsi.