Opinioni & Commenti

L’estate torrida, il debito e i santi asceti toscani

di Romanello Cantini

Una buona parte dei santi del calendario sono dei monaci soprattutto se appartengono al Medioevo. In Toscana poi i santi vissuti nell’eremo sono numerosissimi. Basta pensare a san Giovanni Gualberto, il fondatore di Vallombosa, e a tutti i suoi seguaci.  Io  personalmente vivo in una zona assediata da tre santi patroni romiti l’uno accanto all’altro: Santa Verdiana a Castelfiorentino, Beata Giulia a Certaldo, San Vivaldo a Montaione. E tuttavia finora non sono mai riuscito a entusiasmarmi per questi santi nonostante la grande devozione che ancora li circonda. Il loro murarsi in una cella o rintanarsi dentro il ceppo di una quercia mi sembrava un esempio anacronistico e senza eco oggi che i santi varcano gli oceani per portare carità.

Però sempre più mi accorgo che questi santi passati sulla terra quasi senza toccarla costituiscono ormai il giacimento fossile di una virtù, l’ascesi, che il mondo di oggi ha sepolto per sempre. E anche solo per questo bisognerebbe mettere questa virtù in vetrina come un mammuth riscoperto o al limite dichiararla patrimonio dell’umanità come tutti i miracoli culturali che il passato ha fatto e che il presente non riesce più a fare. Forse nella comunione dei santi si farà tesoro proprio dei digiuni di questi eremiti per farci perdonare tutto lo scialo del nostro tempo. Naturalmente ascesi è parola grossa.

Ma i santi, si sa, sono campioni che corrono a dieci metri al secondo semplicemente per invitarci ad allungare il passo. Nell’ascesi c’entrano ampiamente virtù meno eroiche e impegnative, ma una volta diffuse, come la temperanza, la previdenza, la frugalità, perfino il «fai a miccino» e il «tienne di conto» dei nostri nonni contro la nostra cultura dell’usa e getta. Se in questi santi romiti, nonostante il tanto tempo passato, riusciamo a vedere ancora un record della lotta al consumismo come malattia del nostro tempo ci accorgiamo che quando, per cosi dire, San Vivaldo si mette a tavola e mangia castagne e radici diventa contemporaneo di Gandhi che mangia solo noccioline e banane. Nella loro estrema autarchia ognuno dei due prende solo ciò che gli è accanto e chiede alla natura solo ciò che spontaneamente gli dà come se fossero gli evangelici «uccelli dell’aria».  È noto che per Gandhi la sua dieta da anacoreta non voleva dire né guardare alla linea, né al colesterolo, ma semmai alla grande utopia di abituare anche gli uomini del Duemila a vivere di poco, ad essere facilmente uguali perché naturalmente sobri e ad essere sostanzialmente pacifici per non avere bisogno di rapire nulla a nessuno.

Proprio le due cose di cui si è scritto e parlato di più in quest’estate (il termometro a quaranta gradi e il debito a duemila miliardi) ci avvertono che ambedue questi problemi che tingono di nero il nostro futuro sono entrambi in sostanza, al di là della loro storia politica e dei loro dettagli economici, il venir meno di questo senso della misura e della disciplina di sè che i santi esasperavano ma insegnavano pur con tutti gli sconti del caso. Le nostre estati sempre più torride sono quasi certamente la conseguenza dello sconvolgimento del clima del pianeta dovuto allo sfruttamento accanito e famelico delle sue risorse per soddisfare anche il nostro superfluo. Il nostro debito enorme è il risultato del volere spendere anche quello che non si ha, di volere vivere, seppure con differenze enormi fra il ricco e il povero, fra la rinuncia ignorata e la rinuncia obbligata, al di sopra dei propri mezzi, fino a far pagare i nostri conti non saldati ai nostri figli e i nostri nipoti. E ormai il consumo è diventato una legge così assoluta che alla crisi provocata dai consumi si cerca rimedio solo  con una riprese dei consumi.

La «crescita» e solo la crescita è invocata come la panacea di tutti i mali. Anche se nella storia la crescita c’è stata solo negli ultimi due secoli e, almeno fino ad ieri, solo nel mondo occidentale. Anche se ormai perfino nel mondo occidentale, visto il degrado del pianeta, dopo gli «obiettori di coscienza» stanno apparendo gli «obiettori di crescenza». Ed è gente che chiede non tanto la fine dello sviluppo, ma uno sviluppo diverso: non tanto meno beni, ma solo meno beni materiali e più beni culturali e spirituali.